Parigi: Intervista a Daniele Vicari su DIAZ e i fatti di Genova durante il G8 2001.

ll film di Daniele Vicari, “Diaz. Non pulire questo sangue”, co-produzione italo- franco-rumena, è un film duro, un vero pugno allo stomaco che, fatti alla mano (basato sulle oltre diecimila pagine degli atti processuali, con un lavoro di preparazione durato 4 anni) tenta di raccontare cosa è avvenuto quella sera del 13 luglio 2001 a Genova, dentro la scuola elementare Diaz mentre era in corso il summit del G8. Ne abbiamo parlato di recente a Parigi con il regista Daniele Vicari.


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Raffaello Scolamacchia per Altritaliani: Daniele Vicari, iniziamo entrando subito in argomento. Perché ha voluto girare un film sui “fatti di Genova” del 2001?

Daniele Vicari: Quelli che noi chiamiamo “i fatti di Genova” contengono alcuni tra gli accadimenti più gravi e incredibili della storia italiana recente. Io me ne sono interessato fin da subito, ho tentato anche di fare un altro film – che non sono riuscito a fare – e quando nel novembre 2009 c’è stata la sentenza di I° grado per i fatti della Diaz ho parlato col mio produttore, Domenico Procacci. Avendo la possibilità di utilizzare gli atti della sentenza come base per la ricostruzione dei fatti, abbiamo pensato di cominciare a lavorarci su. Anche perché, dopo la sentenza di I° grado, che fu duramente contestata, una ragazza tedesca usci’ dall’aula dichiarando ai giornalisti italiani che non avrebbe mai più messo piede in Italia, e questa cosa mi colpi’ particolarmente, perché, se qualcuno non vuole più venire a casa mia, vuol dire che non mi sono comportato tanto bene.

R.S.: Gran parte della Sua filmografia affronta argomenti poltico-sociali con uno stile deciso e consapevole. Si definirebbe un regista “impegnato”?

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D.V.: Io sono impegnato a cercare di fare il meglio possibile i miei film (ride).
Poi non c’è dubbio che ho una particolare predilezione per questioni di carattere storico, politico, sociale. Da questo punto di vista non ho problemi a definirmi “impegnato”, ma sono gli altri a dover dire se lo sono davvero, non posso essere io. Quello che posso dire è che mi interessa quello che mi succede intorno.

R.S.: Quali sono i suoi riferimenti nell’ambito del cinema italiano, con particolare riferimento al cinema che possiamo definire “di impegno”?

D.V.: Io amo molto i film, più che gli autori. Però non c’è dubbio che il nostro cinema migliore ha avuto sempre un occhio molto attento alla realtà socio-politica, dal Neorealismo in poi. Ci metterei mezz’ora a fare l’elenco dei registi che mi piacciono…

R.S.: Posso suggerirgliene io un paio? Elio Petri e Francesco Rosi.

D.V.: Mah si…ma anche De Sica, Ettore Scola, i fratelli Taviani…per me sono tutti dei grandissimi maestri.

Intrattengo con la storia del cinema italiano un rapporto molto stretto: mi sono formato con questi film. Io ho scoperto il cinema in tarda età, fino ai vent’anni non son potuto andare al cinema perché vivevo in un posto dove il cinema non c’era. Però poi quando ho scoperto il cinema ho visto con voracità tutti i film italiani. Ma anche autori che non passano per essere autori “impegnati” socialmente e politicamente, come per esempio Michelangelo Antonioni. Ma che secondo me hanno codificato un modo di fare cinema che è il nostro, e dal quale noi possiamo partire, o ripartire, in continuazione. Certo, è un fenomeno importante quasi come il Rinascimento, per cui è difficilissimo averci a che fare: si è sempre insufficienti, si è sempre alla rincorsa. Quello di imitare o di mettersi sulla scia non è però il mio atteggiamento. Al contrario, il mio è un atteggiamento di studio, di attenzione e anche di amore per quello che è stato fatto.

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R.S.: La sua risposta mi dà modo di introdurre la prossima domanda.
Stasera sarà ospite al Festival del Cinema Italiano di Tremblay-en-France: quale crede sia lo stato attuale del cinema italiano? Glielo chiedo pensando al fatto che a Cannes c’è un solo film italiano in concorso, quello di Paolo Sorrentino.

D.V. : Già il fatto che ce ne sia uno non mi sembra poco.. ci sono almeno altri due film che rappresentano l’Italia a Cannes, credo pertanto che possiamo essere contenti. Credo che il nostro cinema in questo momento viva di luci ed ombre. Totalmente abbandonato dalle istituzioni, totalmente schiacciato da meccanismi pseudo-commerciali – perché, se ci fosse un mercato vero, ce la potremmo giocare un po’ meglio –, totalmente combattuto dalle élite politiche, il cinema italiano continua a fare film e continua a misurarsi con la complessità del mondo contemporaneo.

E il fatto che i nostri film, nonostante i limiti ai quali accennavo prima, abbiano una larga diffusione nei festival di tutto il mondo e, qua e là, anche nei mercati di tutto il mondo, secondo me ci lascia ben sperare. Non è abbastanza, ma non è poco.

Per fare l’esempio di “Diaz”, l’anno scorso al festival di Berlino il film ha vinto il premio del pubblico, mentre l’Orso d’oro è stato vinto da “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani. Questa non è una cosa che succede tutti i giorni.

Diaz è stato venduto in tutto il mondo, è stato comprato dalla Universal International. Questo per dire che, nonostante tutto, il nostro cinema esiste.

R.S.: Nonostante soprattutto il fatto che il film abbia avuto diverse difficoltà sia in fase di produzione che in fase di realizzazione. Qual è stata la difficoltà maggiore che avete dovuto affrontare?

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D.V.: Il finanziamento, senza ombra di dubbio.

Il mio produttore, Domenico Procacci, non ha trovato partners all’altezza della difficoltà che il film rappresentava dal punto di vista produttivo. Ha dovuto cercare i suoi partners in Francia e in Romania (Le Pacte e Mandragora movies ndr). E’ grazie a loro se il film si è potuto fare.

Tra l’altro, il film è stato girato interamente in Romania, per difficoltà di vario genere. Economiche, prima di tutto, perché in Italia non c’è nessun vero finanziatore. Sono molto contento che il MiBac ci abbia riconosciuto un finanziamento che, sebbene ammonti a circa 1/20 del costo totale del film, è sempre meglio che niente.

Abbiamo anche avuto piccoli finanziamenti da vari enti locali – Regione Lazio, la Film commission del Trentino Alto-Adige.

L’idea di andare a girare il film in Romania è però dovuta anche al bisogno di una certa tranquillità nel realizzare il film. Tieni presente che quando siamo tornati in Italia, con l’obiettivo di girare meno di una settimana a Genova, ci sono stati sequestrati tutti i mezzi di scena. Il clima intorno al film non era esattamente “meraviglioso”.

R.S.: Possiamo dire allora che il film ha sofferto sia per le conseguenze della debole situazione strutturale del cinema italiano nel suo complesso, sia per questioni legate alla “delicatezza” dei temi che tratta?

D.V.: Molto semplicemente, questo film non si doveva fare. Solamente l’incoscienza e la meravigliosa follia di Domenico Procacci lo hanno reso possibile. Perché è un film che sulla carta è difficile da vendere, eppure ha vinto una scommessa, visto che la Universal International lo ha comprato e lo distribuisce in mezzo mondo: in Germania, in Inghilterra, in Canada, in Brasile, nel Benelux, dappertutto.

R.S.: Con quali occhi crede che gli spettatori all’estero vedranno questo film? Pensa che le società di distribuzione estere siano interessate a comprare “Diaz”?

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D.V.: Il film è piaciuto moltissimo al pubblico del Festival di Berlino che, ricordiamolo, è un pubblico pagante. E’ per questo che i buyers di tutto il mondo vanno a vedere i film li’: il pubblico è vero, non è un pubblico “festivaliero” e basta.

Il film è piaciuto cosi’ tanto che, immediatamente, è stato venduto in tutto il mondo. Ed è piaciuto, credo, perché racconta qualcosa che ha a che fare con l’Italia ma non solo con l’Italia. Il fatto che, ad un certo punto, le istituzioni di un paese, anche democratico, ti si possano ritorcere contro per un motivo qualunque, è una cosa che ci spaventa tutti. Ed è una cosa che, purtroppo, succede sempre più spesso.

In Europa dopo la caduta del muro di Berlino il nostro rapporto con la democrazia e con il suo sviluppo si è interrotto. La democrazia non è più vista come un obiettivo da raggiungere. E’ come se noi l’avessimo già raggiunta e quindi ogni tanto potessimo anche permetterci di farne a meno. E questo è un elemento che secondo me colpisce il pubblico, lo fa riflettere.

D’altro canto il mio intendimento non era quello di dare delle risposte definitive a quello che racconto, ma quello di indurre lo spettatore a farsi più domande di quante se ne faccia entrando al cinema.

Io non credo nei film “a tesi”. “Diaz”, infatti, non è un film a tesi, ma è basato su documenti, è tutto il contrario di un film a tesi.

R.S.: Vorrei passare a qualche domanda più strettamente inerente alle scene del film. Lei dà molta importanza alla scena della bottiglia che viene scagliata verso la volante della polizia che passa davanti alla Diaz qualche ora prima dell’irruzione. Questo dettaglio evoca quella “dimensione inevitabile e assurda di certi avvenimenti che porteranno all’esito fatale descritto durante i processi” (estratto dell’intervista contenuta nel dossier de presse – ndr). Come si concilia il carattere casuale di questa presunta “assurdità” con le sequenze nelle quali si descrive invece la preparazione dell’irruzione alla Diaz come un piano preparato con coscienza di causa?

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D.V.: Si volevano arrestare un certo numero di persone dopo “i fatti” dei giorni precedenti, quando, comunque, la città di Genova aveva subito dei danni anche grossi.

La polizia italiana voleva – come ha dichiarato il vice capo della polizia, Anzolino Andreassi, durante il processo – “riequilibrare la figura negativa”, diciamo, nell’ambito della gestione dell’ordine pubblico, con degli arresti. L’obiettivo principale di Arnaldo La Barbera (ex capo dell’antiterrorismo – ndr), mandato a Genova a prendere in mano le redini della situazione direttamente dal capo della polizia De Gennaro.

Non è che Arnaldo La Barbera volesse far massacrare di botte quelle persone, però il clima che si era venuto a creare era quello li’. Infatti, sempre nel processo, Vincenzo Canterini – che tra l’altro è stato condannato a 5 anni e quindi espulso dalla polizia – ha dichiarato di avere avvertito i suoi superiori che “non c’era il clima adatto” per mettere in atto l’irruzione cosi’ come si andava preparando e che, a suo avviso, sarebbe stato meglio buttare dentro dei lacrimogeni, in modo da far uscire le persone e poterle cosi’ arrestare. La Barbera si è opposto a questo suggerimento – o almeno cosi’ pare – perché avrebbe voluto “cogliere sul fatto” le persone che dormivano all’interno della scuola, dato che si aspettava di trovarvi delle armi. Armi che non c’erano. Quindi si mescolano tutta una serie di piani e di intendimenti che producono questa tragedia. Che è frutto in parte di premeditazione, in parte di una cattiva gestione dell’ordine pubblico e in parte di improvvisazione. C’è stata anche tanta improvvisazione.

Te la dico cosi’: può – e se si – fino a quanto può, un chirurgo che ti opera, “improvvisare”? Un chirurgo che ti opera ha in mano la tua vita. Durante un intervento di ordine pubblico la cosa non è tanto diversa: i poliziotti hanno in mano la vita delle persone che hanno di fronte. Perché l’ordine pubblico è una cosa molto complessa, molto difficile da gestire. Quindi, se queste persone non sono all’altezza di quello che fanno possono causare delle tragedie. Ecco, li’ a Genova si sono messe insieme tutta una serie di disfunzioni che hanno prodotto quella tragedia.

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R.S.: Che hanno prodotto anche – come effetto secondario – la fine di un grande movimento politico e sociale. Come lei stesso dichiara: “ Mi chiedo se quel che è successo a Genova nel 2001 non segni l’inizio di una crisi istituzionale e sociale profonda che, dopo un decennio di deliri politici, ha condotto l’Italia sull’orlo del precipizio”. Aggiungo che quel che è successo ha anche arrestato un movimento che era sul nascere, e che da allora si è pressoché dissolto.

D.V.: Genova 2001 è stato il canto del cigno di quel “movimento”. Che da li’ in poi non è stato più capace di elaborare quel che è successo e di rilanciare. E questo non solo per la repressione che ha subito, ma anche per motivi soggettivi.

Cioè non è che dopo i fatti del 1905 o del 1914 i rivoluzionari russi hanno smesso di pensare alla rivoluzione: poi l’hanno fatta. C’è stata una repressione violentissima, i cosacchi hanno ammazzato migliaia di persone, quasi scannate come si fa con i maiali, però poi i rivoluzionari riuscirono a cambiare la forma che aveva il loro Stato.

Quindi, a volte ci sono dei movimenti che si fermano di fronte alla repressione, quando questa è talmente schiacciante da riuscire a sopprimerli. Altre volte, però, a questa repressione è possibile rispondere. Ecco, il “movimento”, secondo me, non ha avuto la forza di rispondere. Quindi c’è anche un limite soggettivo da tenere in conto.

Ma al di là di questo, i “fatti di Genova” hanno sancito un’attitudine della società italiana a schiacciare e rimuovere il conflitto. E questo ha portato ad una mancanza di capacità critica da parte sia delle istituzioni, della politica, sia da parte dei cittadini, in merito a che cosa ci sta succedendo intorno. Sospensione della capacità critica. Credo che in nessun paese al mondo due personalità come, che so, Berlusconi e Beppe Grillo, potrebbero essere i “dominus” della politica. Solo la mancanza di lucidità di noi italiani – in questo passaggio storico che stiamo vivendo – fa si’ che possano diventare dei punti di riferimento delle persone che, come dire, sono molto lontane dall’essere persone in grado di risolvere problemi.

Quindi questa mancanza di lucidità è dovuta ad una serie di fattori. Uno di questi fattori è, secondo me, il fatto che noi ci siamo illusi che la situazione socio-politica italiana si fosse stabilizzata definitivamente, e che quindi non avremmo più avuto crisi economiche. E abbiamo mandato al governo della gente che non era assolutamente all’altezza per affrontare situazioni di emergenza.

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Stiamo procedendo di rimozione in rimozione, di sospensione in sospensione. Anche i governi tecnici sono, per certi versi, una sospensione del normale processo democratico. Lei si immagina se in Francia dovesse entrare in crisi il governo e, per risolvere la situazione, dovessero mettere a capo del governo il presidente della Banca di Francia? I francesi darebbero fuoco a Parigi! Eppure da noi questa cosa può succedere: perchè? E non è neanche la prima volta che succede…vuol dire che c’è un problema.

R.S.: Un’ultima domanda. Ha parlato della mancanza di lucidità da parte del cittadino medio italiano nel giudicare ciò che accade nel proprio paese. Puo’ il suo film arrivare a diventare uno “specchio” nel quale il cittadino possa guardarsi e riuscire a ri-conoscersi e riacquisire la lucidità perduta davanti a fatti cosi’ tragici? E ancora, cosi’ come accade al personaggio del giornalista interpretato da Fabrizio Rongione, che brandisce una videocamera per difendersi dalla violenza insensata dei poliziotti: la testimonianza del cinema può rappresentare un valore? Il cinema può essere salvifico?

D.V.: Certo, può esserlo il cinema come può esserlo il giornalismo. Una delle cose più gravi che è accaduta a Genova, oltre al fatto che sono state torturate e massacrate delle persone: quando si sospende la democrazia la prima cosa che si fa è sospendere anche la verità. Si sospende cioè la capacità critica, quindi si allontana il giornalista che fa domande “scomode”. A Genova sono stati puniti giornalisti di tutto il mondo. Questa cosa qui è di un’importanza enorme. Quando c’è stata la conferenza stampa della polizia che ha raccontato quella stupidaggine delle molotov, i giornalisti di tutto il mondo presenti alla conferenza stampa si sono ribellati: “Ma che cosa ci state raccontando? Noi ieri eravamo davanti alla scuola! Perché ci dite una tale falsità?” Fine della conferenza stampa.

Questa cosa somiglia all’instaurazione di un regime temporaneo: la prima cosa che si fa quando c’è un colpo di stato è occupare la sede della televisione e bloccare i giornali, no?

Raffaello Scolamacchia©

Parigi, Hôtel Lutetia,
19.04.2013

P.S. Si ringrazia per l’accoglienza e la collaborazione Le Pacte, e in particolare Matilde Incerti.

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