Tommaso Campanella nell’esilio francese

Tommaso Campanella (1568-1639) è uno dei personaggi più sorprendenti del Rinascimento. Il periodo del suo esilio francese è quello meno noto e studiato, ma non per questo meno importante prima della conclusione della sua vita. Durato appena cinque anni, dal 1634 al 1639, gli ultimi della sua vita, permise al filosofo calabrese di recuperare tranquillità ed onore dopo anni di persecuzioni, prigionia e torture, e di riprendere l’attività pubblicistica che in Italia gli era stata vietata. Un percorso ricco di occasioni e suggestioni.


Tommaso Campanella

Del filosofo Tommaso Campanella sono stati rivelati spesso aspetti della vita e delle opere talvolta in contraddizione tra loro, segno della vivacità e dell’inquietudine del suo carattere e dell’anticonformismo che l’ha contraddistinto. E’ apparso ora ribelle e mistificatore, ora innovatore sia in campo politico che religioso. La “iactantia Campanellae”, definita così dai suoi avversari, durante i processi che il filosofo subì nella prima parte della sua vita, altro però non era che l’indomita volontà del suo carattere irrequieto, pronto a superare le provocazioni degli avversari per difendere la verità che costantemente traeva dalla lettura dei testi sacri.

Potè infatti talvolta apparire esaltato e senza scrupoli, ma visse intensamente la sua fede e trasformò la sua presunta sconfitta in una vittoria morale, come si evince dal fervore delle sue opere, composte fino alla fine per cogliere prevalentemente il senso della storia e della natura con rinnovati progetti.

Così dopo il vasto disegno ierocratico della Monarchia di Spagna, non si sa bene se elaborata prima o dopo la condanna al carcere, relativa ad una grande Confederazione cristiana con a capo il Papa, egli passò successivamente ad attribuire alla Francia, di cui fu ospite nell’ultima parte della sua vita, la funzione di guida della auspicata Monarchia universale. L’opera politica “Monarchia di Francia”, composta nel periodo del suo esilio francese, nel 1636, rappresenta l’ultima trattazione contraddittoria di Campanella che sostituì alla Spagna, considerata in decadenza, la Francia come nazione più adatta a tal ruolo, capace cioè di assumere su di sé la responsabilità di unificare i popoli sotto l’egida pontificia. Era un modo per accattivarsi le simpatie dei potenti della nazione che l’ospitava in quel periodo o piuttosto nasceva da un’autentica certezza ch’egli aveva acquisito dopo la sua venuta?

Città del sole : un capolavoro dell’utopia

E’ difficile dare una risposta sicura, data la perenne discontinuità delle sue proposte, ma senza dubbio la tela ch’egli andava tessendo apparteneva più al terreno dell’utopia che della realtà effettiva. Era sull’onda di quella Città del Sole da cui tanta notorietà gli era venuta, ma anche singolare condanna.

Forse il periodo dell’esilio francese di Campanella è quello meno noto e studiato, ma non è per questo meno importante, se si vuol dare una spiegazione logica alla sua vita, sospesa tra la presunta follia, da lui stesso inventata per tentare di sottrarsi alla condanna ed alla pena susseguente alla sua congiura, e l’attrazione verso una pace universale come realtà possibile. Tra le motivazioni che l’inducevano a questo cambio di giudizio c’erano errori, a suo dire, compiuti dalla monarchia spagnola, specie nella codificazione delle leggi vigenti, che avevano finito con il toglierle l’equilibrio e la saggezza necessari per votarsi ad un sì alto compito. Da qui l’appello alla Francia a soddisfare le istanze di giustizia che provenivano dai popoli oppressi dagli Spagnoli, non ultimi i sudditi del regno di Napoli, prima di porsi alla testa d’un grande schieramento cristiano che avrebbe visto uniti i popoli sotto un solo Pastore, il Papa.

Due saggi, uno francese di M. Pierre Lerner: Tommaso Campanella en France au XVII siècle (Bibliopolis. Napoli 1995 ) e l’altro dell’italiana Germana Ernst: Tommaso Campanella (Laterza 2002) invitano a riconsiderare la permanenza del filosofo calabrese in terra francese, durata cinque anni, dal 1634 al ’39, per tentare una decifrazione del suo comportamento.

La decisione di rifugiarsi in Francia era in lui subentrata dopo un periodo trascorso a Roma, dopo la sua liberazione avvenuta nel 1629. Aveva trascorso cinque anni come consigliere del Papa Urbano VIII, che l’aveva aiutato e s’era rivelato molto sensibile ai suoi consigli astrologici. Poi l’avevano convinto a fuggire alcuni gravi avvenimenti intervenuti che minacciavano di coinvolgerlo. A Napoli infatti, fin dal 1633, era stato messo in carcere un giovane domenicano calabrese, fra Tommaso Pignatelli, accusato d’aver ordito una congiura spagnola. Siccome era stato discepolo di Campanella, di nuovo attorno alla persona del filosofo crebbero sospetti ed accuse.

Quando, nell’ottobre del ’34, il Pignatelli fu messo a morte, il frate domenicano, sostenuto anche dal Papa, Urbano VIII, di cui vantava l’amicizia, fuggì da Roma sotto falso nome con una carrozza, messagli a disposizione dall’ambasciatore Francois de Noailles.

S’imbarcò per la Francia a Livorno. Giunto a Marsiglia, il 29 ottobre del 1634, raggiunse Aix en Provence, ospite del dottore Nicolas Claude Fabri de Peiresc con cui era venuto in contatto epistolare già dall’anno precedente. Campanella gli fu sempre grato, per tutta la vita, della generosa accoglienza ricevuta e del dono di cinquanta scudi d’oro al momento della partenza. Dopo una tappa a Lione, arrivò a Parigi il I Dicembre, ospite prima del vescovo di Saint Flour e poi del convento dei domenicani in rue St-Honoré. Il filosofo considerò provvidenziali gli anni del suo soggiorno francese per completare le sue opere e per espletare la sua vocazione di apostolo religioso. Non rimase chiuso in convento, assorto in meditazione, ma agì con grande determinazione, avvalendosi dell’amicizia di molti intellettuali vecchi e nuovi che gli furono vicini, attratti dalla sua straordinaria avventura umana e dalla sua profonda cultura.

Il Rè di Francia Luigi XIII

In Francia conobbe e frequentò, oltre al Peiresc, il cancelliere Pierre Séguier a cui dedicò la nuova edizione della Philosophia realis, Gassendi, con cui discusse della teoria tomistica, Naudé, Bouchard, Gaffarel, Bourdelot, Renaudot e primi tra tutti il cardinale di Richelieu che lo ricevette in udienza nel 1634 e il sovrano Luigi XIII che l’accolse nel 1635.

Così egli descrive con commozione l’incontro con il re, in una sua lettera al Peiresc (9 marzo 1635):

Io credo d’avergli parlato bene e lui interpretava; e ridea d’allegrezza e insieme mostrava compassione dei miei guai, e si commoveva con decoro regio. Sempre in piedi Sua Maestà ed io e tutti gli astanti. Mi disse: Très bien venu. Non li farò mancare alcuna cosa,lo ricevo in mia protezione: stia allegro e sicuro.

La sua fuga rocambolesca aveva fatto molto scalpore, ma più di tutto la sua straordinaria vicenda di doppia condanna da parte delle autorità spagnole e del santo Uffizio che non gli aveva impedito di riportare salva la vita. L’accoglienza fu festosa, nonostante che prima del suo arrivo il nunzio ordinario francese, Giorgio Bolognetti, avesse ricevuto dal Card. Fr. Barberini l’avvertimento a prendere le distanze dal filosofo: Questo è cervello torbido e presume assai della sua dottrina, gli aveva detto.

Con il nunzio straordinario Mazzarino[[Sull’attività di Mazzarino alla corte francese: A. Bazzoni, Un nunzio straordinario alla corte di Francia nel sec. XVII. Firenze 1880.]] però l’approccio non fu tanto idillico. Gli concesse sì dei sussidi, ma a patto di non pubblicare opere senza l’autorizzazione delle autorità romane. Un vitalizio gli fu pure concesso da Richelieu a cui Campanella dedicò il De sensu rerum et magia appena ripubblicato, nel 1636.

Il filosofo di Stilo fu introdotto poi in veste di apprezzato moderatore nell’Accademia fondata, nel 1631, da Monseigneur d’Arlay, arcivescovo di Rouen, rinata sotto l’impulso del Cardinale di Richelieu, une académie nouvelle contro gli eretici, come egli stesso la chiamò e per cui fu protagonista della conversione di alcuni calvinisti quali il marchese d’Asserach e Isaac de la Pereyre. Il suo ardore di lotta contro gli eretici fu presto riconosciuto e fu ricercato il suo Atheismus triumphatus anche prima della ripubblicazione avvenuta nel 1636.

Campanella fu accolto quindi come ospite gradito dai teologi della Sorbona e s’avvalse del loro lusinghiero giudizio per stampare nel 1636, sul frontespizio di alcuni suoi testi, il loro consenso: cuius iudicio solenniter in coetu omnium, omnium applausu et Dominorum Moderatorum elogio exceptus Pater magister Campanella.

Il Cardinale Mazzarino

Ma più tardi per il suo progetto della Monarchia di Francia dure critiche gli giunsero da Mazzarino che riteneva l’opera composta a fine opportunistico.

In effetti appariva già anacronistico l’antico modello medievale d’una Monarchia universale ch’era stato pure dell’esule Dante. I tempi l’avevano sconfessato e le grandi monarchie si muovevano verso un drammatico confronto-contrasto, anziché versol’unità nella concordia e nella collaborazione. A quest’opera tuttavia il frate affiancò altre due di grande significato: Aforismi politici per le presenti necessità di Francia, successivamente tradotto in latino, pubblicato in Italia per la prima volta dall’Amabile e successivamente da L. Firpo e Documenta ad Gallorum Nationem. Lo scopo implicito era di dissuadere Luigi XIII dal sottoscrivere un trattato di pace con la Spagna.

L. Firpo,che s’è occupato a più riprese del pensiero politico del Campanella[[Cfr. L. Firpo, Idee politiche di T. Campanella nel 1636, due memoriali inediti in Il Pensiero politico XIX, 1986 pp.197-221 e L. Firpo, Gli ultimi scritti politici di T. Campanella in “Rivista storica italiana”,73, 1961 pp.772-801.]], considera queste pagine tra le più belle di quante sull’argomento Campanella avesse mai scritto, in quanto egli dice l’umile frate straniero si fa coscienza morale del paese che lo ospita ed esorta il sovrano ad assumere il ruolo guida di tutte le nazioni contro la tirannia degli spagnoli oppressori e distruttori del genere umano.

A comprovare la loro dissennata politica introduce il vivace affresco delle misere condizioni del regno di Napoli, di cui aveva avuto diretta esperienza. Vi si pagano più tasse di quanti beni si posseggano. Qui ognuno, anche se poverissimo, senza casa, senza campo, che vive del proprio lavoro, paga venti ducati solo per poter portare la propria testa sopra il collo. Qui ogni mese aumentano le tasse indiscriminatamente su ogni bene, sia naturale che manufatto, sia comprato che venduto e chi guadagna quindici carlini per cavare con grande fatica il filo di seta dai bozzoli, ne deve versare undici al fisco. Qui si paga per i beni reali e per quelli immaginari e in Puglia il re compra le terre ai contadini per venderle ai pastori e quindi rivenderle ai contadini ad un prezzo maggiore. Ormai quasi più nessuno è proprietario della sua casa o del suo campo, e anche gli altri beni sono venduti agli usurai o ai genovesi, esattori delle tasse. Pertanto gli infelici sono costretti a coltivare i campi altrui per poter mangiare e pagare il tributo personale, e se ciò non basta sono costretti a emigrare in altre regioni o ad arruolarsi come soldati, abbandonando le mogli ed i figli, e non ricevono mai la paga promessa e muoiono disperati. E se qualcuno ha qualcosa da ridire viene subito condannato a morte come reo di lesa maestà.

La rappresentazione delle plebi meridionali, di cui Campanella stesso aveva fatto parte, appare però talmente diffusa e affrescata che non si può facilmente credere che l’opera Monarchia di Francia sia scevra da propaganda politica e volta solo al bene della collettività universale. Tracce d’un certo rancore personale si riscontrano pure nelle tre allocuzioni rivolte a Genova, al duca di Savoia e al granduca di Toscana perché abbiano a staccarsi da ogni legame politico ed economico che ancora li lega al governo spagnolo e riacquistare autonomia e consapevolezza della necessità d’un nuovo corso. Non si può fare a meno di pensare dove fosse finito il presunto filospagnolismo campanelliano della prima Monarchia. Forse era stato solo una facciata di comodo? In altro modo si componevano i cardini del mondo reale. Allora per individuarli gli si apriva la via si d’ un diverso percorso, segnato dalle sue conoscenze astrologiche.

Il Cardinale di Richelieu

L’ultimo atto della vita del filosofo di Stilo in Francia fu infatti di tale natura. Si sapeva della sua capacità di interpretare gli influssi degli astri. Per questo già il Cardinale di Richelieu l’aveva pregato di scrivergli un trattato di chiromanzia che Campanella compose con molta prudenza, per non provocare malintesi. Egli provò così a rinnovare l’arte di leggere i segni fisici, cioè le tre linee fondamentali della mano, come aspetti generati dalla natura o da Dio, senza ricorrere a sotterfugi o stratagemmi occulti, riprendendo in questo una tipica tendenza cinquecentesca che aveva avuto in Cardano e in Giovan Battista Della Porta i maggiori rappresentanti. Il trattato latino di quest’ultimo sull’argomento, rimasto inedito probabilmente per motivi di censura,fu tradotto in italiano da Pompeo Sarnelli, nel 1677, con il titolo Chirofisionomia.

Vi si racconta un episodio poco noto della vita del frate calabrese, cioè il patto ch’egli aveva fatto con il boia di Napoli, Antonello Cocuzza, per poter osservare mani e piedi degli impiccati, quando enivano portati a Ponte Ricciardo, a circa mille passi dalla città di Napoli. Campanella studiava le loro linee e tracciava disegni e poi li confrontava nel tentativo di trarre una qualche teoria sulla loro personalità.

Tommaso Campanella

Con l’Ecloga in nativitatem Delphini, in esametri latini, del dicembre del 1638, pubblicata a gennaio del 1639, poi imitata ed ampliata da J. Poisson e da altri poeti successivi, Campanella concluse il ciclo dei suoi scritti. La regina l’aveva fatto chiamare per conoscere l’oroscopo del figlio che per strana coincidenza era nato proprio il 5 settembre del 1638, nell’anniversario del settantesimo compleanno del frate. Il documento è intitolato: Horoscope de Louis XIV par Campanella (Bibliothèque nationale. Cabinet des Estampes, Qb1. 1638). Vi si auspica per il delfino un lungo e felice regno, in una nuova età aurea di virgiliana memoria, in cui i colori cupi, indice di pianto e d’ignoranza lasceranno finalmente il posto a candide vesti su candidi cuori. C’è il ricordo della sua giovanile Città del sole, “ottima città inespugnabile e tanto riguardevole che mirandola solamente s’imparano tutte le scienze istoricamente[[Il giudizio ritorna nella Lettera del 6 luglio 1638 a Ferdinando II dei Medici, per accompagnare l’invio della Philosophia realis.]]. Il suo augurio è che i tiranni apprenderanno a regnare per il bene del popolo, cesserà l’ozio, dopo che sarà cessata la penosa fatica …e tutti riconosceranno un unico padre e Iddio. Ritorna questa grande immagine della pacificazione universale.

Così, dopo anni di persecuzioni, prigionia e torture, il filosofo calabrese concludeva la sua vita con il sogno d’un auspicato rinnovamento in terra francese. Forse era tornato a sperare per aver provato sentimenti di amicizia, di rispetto e di corrispondenza. Per quanto i suoi avversari si fossero adoperati a distruggerlo non era stato spento o frenato il suo ingegno fervido e desideroso di pace, come aveva scritto nella lettera indirizzata a Ferdinando II dei Medici: Il secolo futuro giudicherà noi perchè il presente crucifige i suoi benefattori, ma poi resuscitano il terzo giorno o il terzo secolo.

Gaetanina Sicari Ruffo

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Gaetanina Sicari Ruffo
Gae(tanina) Sicari Ruffo è purtroppo venuta a mancare nel 2021. Viveva a Reggio Calabria. Già docente di Italiano, Latino e Storia, svolgeva attività giornalistica, collaborando con diverse riviste, tra cui Altritaliani di Parigi, Calabria sconosciuta e l’associazione Nuovo Umanesimo, movimento culturale calabrese. Si occupava di critica letteraria, storica e d’arte. Ha pubblicato i saggi Attualità della Filosofia di D.A. Cardone, in Utopia e Rivoluzione in Calabria (Pellegrini, 1992); La morte di Dio nella cultura del Novecento, in Il Santo e la Santità (Gangemi, 1993); La Congiura di Tommaso Campanella, in Quaderni di Nuovo Umanesimo (1995); Il Novecento nel segno della crisi, in Silarus (1996); Le donne e la memoria (Città del Sole Edizioni, 2006, Premio Omaggio alla Cultura di Villa San Giovanni); Il voto alle donne (Mond&Editori, 2009, Premio Internazionale Selezione Anguillara Sabazia). Suoi anche i testi narrativi Là dove l’ombra muore (racconti Premio Internazionale Nuove Lettere, 2010); Sotto le stelle (lulu.com, 2011); La fabbrica dei sogni (Biroccio, 2013); la raccolta di poesia Ascoltando il mare (Pungitopo, 2015).