Eppur si muore: considerazioni sulla pena di morte nel 2013.

Sulla scia dei filosofi illuminati, di Cesare Beccaria in particolare, e dopo il richiamo di Strasburgo, vale la pena interrogarsi sull’efficacia del carcere in Italia e sul persistere vitale di pratiche di tortura e di morte in zone del mondo elette a modello di democrazia.

«Non è ammessa la pena di morte» (Art. 27, Costituzione della Repubblica Italiana, 1947)

La pena di morte esiste ancora e sotto varie forme. Come ogni fenomeno esterno al cono di luce proiettato dal suo esaminatore, il non plus ultra della condanna non susciterebbe particolare apprensione perché considerato remoto e improbabile. Almeno fino al momento in cui sotto i riflettori cadono sagome familiari: i due Marò in India, tanto per fare un esempio nostrano recente. Tra le molte prospettive di studio sulla morte, siano esse meta-disciplinari o scientificamente esatte, la convergenza maggiore si incontra sull’impossibilità di riconoscere chiaramente l’oggetto della propria analisi.

Di morte e di morti si può parlare soltanto ai bordi, ai margini, senza, per ovvi motivi, conoscerli bene. Siamo di fronte ad un limite conoscitivo, ad un accadimento non voluto dal genere umano, impostoci, nostro malgrado, come dimensione irriducibile del reale. E che ci attrae morbosamente proprio perché esterno al percorso illuminato dal cono di luce. Una contraddizione in termini giocata sulle parole noto-ignoto, esperito-non esperito, memento vitae-memento mori, diritto alla vita-diritto sulla vita.
Mentre si riflette sulla normativa e sulla morale, Cina, Iran ed Arabia Saudita sostanziano le statistiche sulle esecuzioni di morte con un attivo di 98% sul totale mondiale.

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Per rimanere in un’area semantica socio-giuridica, la pena di morte è l’esercizio ultimo dello Stato contro un individuo colpevole di aver arrecato danno alla collettività. Il rapporto vettoriale è univoco e va dalla moltitudine (M) al singolo (S), dopo che è stato violato il percorso opposto una o più volte. La peculiarità della relazione che si viene a formare risiede nella natura dei soggetti che agiscono; natura che, qualunque sia la direzione vettoriale tra M e S, non smette mai di essere umana. Il mezzo invece che rende attuabile pene e/o torture è da considerarsi, almeno per l’uso, strumento in-umano. Il primo nodo concettuale si affaccia: per esercitare la forza dell’uomo su un altro uomo si ha bisogno anche di qualcosa di esterno ai due attori della tragedia.

La forza di calpestare il diritto sacrosanto alla vita, il diritto dei diritti, si esercita avvalendosi di strumenti di morte, spesso chimici, talvolta meccanici. Si ha quindi una sorta di irriducibilità del reale domata e gestita da chi dovrebbe esserne vittima. La manipolazione forzata del tempo della vita e della morte è operazione dalla biografia lunga: già nella Pièces originales et procédure du procès fait a Robert-François Damiens del 1757 si racconta della pena atroce inflitta al condannato Damiens: «Venne acceso lo zolfo, ma il fuoco era così debole, che la pelle, del disopra delle mani solamente, non fu che assai poco danneggiata. Poi, un aiutante del boia, le maniche rimboccate fino al di sopra del gomito, prese delle tenaglie d’acciaio fatte apposta, di circa un piede e mezzo di lunghezza, lo tanagliò prima al grasso della gamba destra, poi alla coscia, poi alle due parti del grasso del braccio destro; in seguito alle mammelle. […]» La società democratica si fa quindi officina di oggetti pro vita e pro morte con la stessa dose di ingegno profuso.

Su un terreno storico frolloso come quello attuale, picchettato al perimetro sempre più vagamente dal concetto di democrazia che tutto fagòcita e tutto rappresenta (sia essa partecipata, diretta, presidenziale), la condanna capitale è ancora diffusamente praticata. Oltre oceano a sinistra –a guardarla dall’Italia-, in basso a destra e ancora più in là. Democrazia e pena di morte sono coinquilini che condividono spazi comuni. Miracoli del nostro secolo im-penitente che ha molte contraddizioni sotto gli occhi ma non le vede? Rivolgere lo sguardo al modello settecentesco potrebbe rivelarsi utile e illuminante.

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Beccaria, nel Dei delitti e delle pene del 1764, concatena i suoi argomenti contro la pena capitale logicamente: la giustizia serve a preservare la vita; mai si può preservare la vita togliendola; la collettività deve assumersi il carico dell’origine e delle cause del delitto commesso dal singolo. La funzione intellettuale che il philosophe tenta di assumere è certamente proiettata all’esterno, al pubblico settecentesco che da poco aveva saggiato anche il Traité sur la tolérance di Voltaire. Il ponte tra i due sta proprio nella costruzione di una geometria morale diversa dalle precedenti, ispirata ad un’idea di welfare tutt’altro che ammuffita, ad una massimizzazione dell’utilità sociale (calcolo felicifico di Bentham).

L’idea di fondo è ottenere una sovranità che renda conto della somma delle porzioni di libertà del singolo e nonostante questo accetti di cederne una parte a sigillo di un contratto sociale menzionante diritti e doveri. Un bene collettivo vero e proprio, con un pactum unionis sempreverde a garantire l’allontanamento dall’individualismo e dall’usurpazione potenziale di un giudice soggetto a cattive passioni. La moneta di scambio, nel prevedibile do ut des tra Stato e Cittadino è, da un lato la certezza di una pena giusta, dall’altro la proporzione tra delitti e pene, quest’ultime strettamente necessarie e minime. In più di un punto mi pare che il pensiero di Beccaria ci convochi ancora sul pronunciare un no deciso verso ogni presupposto di legittimità della pena di morte.

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Anche per la parte relativa alla dolcezza delle pene l’intellettuale ha le idee chiare: «Essere il meno arbitrari possibile. È vero che è la società a definire, in funzione dei propri interessi, ciò che deve essere considerato delitto: quest’ultimo non è dunque cosa naturale. Ma se si vuole che la punizione possa, senza difficoltà, presentarsi allo spirito dal momento che si pensa al delitto, bisogna che dall’uno all’altra il legame sia il più immediato possibile: di rassomiglianza, di analogia, di prossimità» (cap. XXVII). Siamo al secondo dei punti critici: lo specchio del delitto che riflette al detenuto il grado della pena attribuitogli dal sistema funziona bene fino all’infinito meno uno. Il contrappasso di matrice medievale dosa infatti la funzione applicativa della legge in modo da non restituirne mai fino in fondo l’assurdità totale (togliere la vita).

Nel momento in cui il delitto riflette l’atto compiuto di omicidio, la pena deve cedere il passo e fermarsi al gradino sottostante. L’imperativo categorico continua ad essere calco di uno dei dieci comandamenti cristiani: non uccidere.

Mettendo insieme i pezzi del ragionamento si può dire che l’unica pena capace di ripagare il delitto senza nuocere alla vita del delinquente sia l’ergastolo. Tuttavia, lo stesso Beccaria definirà la pena a vita come una ‘pena di schiavitù infinita’ (dal latino ergastulum = lavoro forzato proprio degli schiavi ribelli), un segno indelebile che resta nel corpo del condannato vita natural durante.

Dunque una condanna a morte speciale, con effetto ritardato e a carico della natura. Una morte in differita. A cercare analogie audaci con il presente, un effetto ritardato in materia di pena fa pensare alla proposta del governo tecnico di Mario Monti di procrastinare l’esecuzione della pena allo scopo di non peggiorare le condizioni di sovraffollamento delle carceri italiane.

La correzione. La prima considerazione da fare in proposito riguarda il presupposto di un raddrizzamento possibile di qualcuno che ha perso la strada. L’atto di recupero avviene in separata sede con l’uscita del reo da una prima collettività che rappresenterebbe il bene e l’entrata in una seconda collettività, materializzazione spazio-temporale non di un male (una tipologia di reato), bensì di numerosi mali (varie tipologie di reato). Concetti, quelli del bene e del male dai confini sfumati e dalle interpretazioni molteplici, soprattutto nel XXI secolo. Inoltre la pluralità di reati si amalgama al valore che essi hanno nelle varie realtà culturali rappresentate cospicuamente nelle carceri italiane (si pensi al problema della mediazione negli istituti che ospitano detenuti di provenienza mista, dall’Africa al Medio Oriente, con confessioni religiose e lingue diverse).

Limitandoci al paradigma di Beccaria, possiamo dire che se il delitto non è un fatto naturale in quanto difforme al contratto sociale stipulato dai contraenti su interessi, il bene lo è perché semplicemente elemento costitutivo della società di partenza. Se il condannato si fa agente del male proprio in questo contesto, buono per natura, il sistema diventa un congegno bifronte, capace di produrre bene e male allo stesso tempo. Parto di gemelli eterozigoti.

Il carcere. Luogo non luogo, realizzazione di una scansione temporale che non ammette riprogrammazioni. All’art. 17 del Regolamento redatto da Léon Faucher per la Casa dei giovani detenuti a Parigi si legge che «La giornata dei detenuti comincerà alle sei del mattino d’inverno, alle cinque d’estate. Il lavoro durerà nove ore al giorno in ogni stagione. Due ore al giorno saranno consacrate all’insegnamento. Il lavoro e la giornata termineranno alle nove d’inverno, alle otto d’estate». La strutturazione primaria del congegno carcerario sembra essere basata sul tempo (kronos) e sul modo di «ammazzare il tempo».

Attività sportive, culturali da una parte (il pensiero va al film Cesare non deve morire dei fratelli Taviani), dall’altra lavori forzati e isolamento. Il tempo mi sembra il terzo nodo di riflessione: il teschio che fa da alterco alla bellezza e alla giovinezza in tante operazioni artistiche, il tempo reversibile o irreversibile di Orfeo e Euridice, l’impossibilità di ritornare indietro e modificare l’azione o le azioni compiute da parte dei detenuti, le quali diventano così «senza tempo». La scansione carceraria sembra rispondere a questa esigenza: restituire un tempo regolamentato dall’alto, un nuovo ritmo, il ritmo della prigionia, altamente democratico poiché fedele ad uno spartito uguale per tutti i «captivi».

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Anche lo spazio d’azione del prigioniero cambia connotati non a caso: la chiusura-clausura in celle in cui forse le mura rappresentano quei confini percepiti e sfruttati erroneamente altrove, ci rimandano, per contrasto, alle origini della natura umana fatta per vivere all’esterno, in simbiosi con l’ecosistema (ambiente naturale e umano). Nel recinto del filo spinato un ruolo fondamentale è giocato anche dalle guardie; a loro il compito di mantenere l’ordine e far rispettare le regole. A loro l’incarico di accompagnare il detenuto nel percorso riabilitativo, di interpretarne le necessità corporali, di prevenirne i gesti aggressivi o suicidi, di coglierne gli eventuali miglioramenti o peggioramenti psicofisici (il caso aperto sulla morte di Cucchi dove va collocato?).

A loro, uomini addestrati alla forza con in tasca la pistola e in petto la medaglia, il duro compito di trait d’union tra due mondi di uomini e donne diversamente vivi. Art. 28 «Alle sette e mezzo d’estate e alle otto e mezzo d’inverno, i detenuti devono essere riportati nelle loro celle, dopo il lavaggio delle mani e l’ispezione dei vestiti fatta nei cortili; al primo rullo del tamburo, svestirsi, al secondo mettersi a letto. Si chiudono le porte delle celle ed i sorveglianti fanno la ronda nei corridoi, per assicurarsi dell’ordine e del silenzio». (op.cit.)

Lo stato delle cose. Dall’epoca del razionalismo illuminato qualcosa è cambiato in materia di esecuzioni capitali e di detenzione. Oggi si spera archiviato definitivamente lo spettacolo della punizione sul corpo come trofeo di pena scontata, di giusto contrappasso. Oggi si auspica superata la credenza per la quale assistere in diretta ad un’esecuzione capitale fino a sentire il puzzo delle scosse elettriche sul cervello possa alleviare il dolore delle vittime e dei familiari. Oggi l’utopia del dolore, ovvero quella che impone pene libere dal supplizio corporale, sembra aver risolto il problema della crudeltà dei supplementi riservati al dead man walking. Eppure, per coloro per i quali al peccato da espiare non corrisponde un premio e una speranza di reintegro in società, il passaggio dalle mille morti quotidiane al rigor mortis finale resta un dato di fatto.

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Curioso è anche imbattersi in molti filmati di esecuzioni capitali recenti (l’ultima relativa al primo marzo 2013 in Cina) e chiedersi che senso abbiano le accortezze usate a un minuto dalla morte. L’ultimo pasto, l’ultima cena, le ultime parole, l’ultimo desiderio suonano macabri avanzi di una vita umana spesa male e finita peggio. Per non contare, nemmeno minimamente, la possibilità di errore nelle sentenze e nell’inquinamento delle indagini.

Beccaria guardava ad una società in grado di fare il mea culpa e di assumersi la responsabilità del delitto compiuto; la corresponsabilità nella spinta individualista di un singolo a non farsi bastare quella porzione di libertà della torta della sovranità statale a lui riservata dalla legge naturale. Il punto è anche capire quanto la società di partenza, come una sorta di alfabetizzazione di ritorno, si mostri capace di restituire gli strumenti per il ri- apprendimento dei diritti e dei doveri necessari per la coabitazione tra esseri umani.

Rosa Chiara Vitolo

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