Elezioni 2013 e CGIL – Partiamo dal lavoro, ma… non solo.

Anche se il sindacato è di solito fuori dalla contesa elettorale, i temi del lavoro come dell’economia, delle imposte e il futuro dei pensionati sono imprescindibili per chiunque governerà dopo il voto del 24 e 25 febbraio. Quali i temi e le urgenze per il paese tenendo un occhio particolare per chi è all’estero. Ecco il punto di vista del più rappresentativo sindacato d’Italia. La CGIL.

Intervenire sul dibattito elettorale significa per me parlare del lavoro, delle persone, del loro essere. E vorrei farlo utilizzando le parole usate da Susanna Camusso, Segretaria Generale della CGIL, proprio in occasione della presentazione del Piano del Lavoro il 25 e 26 Gennaio.

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“Per noi lavoratrici e lavoratori, pensionati e sindacalisti, militanti ed iscritti al sindacato, alla CGIL, parlare di lavoro è parlare del pane.
Il lavoro è stato per noi e deve restare l’ingresso nella vita adulta, nella vita autonoma, nel piacere del realizzare i propri progetti e i propri sogni.
Per questo il lavoro non può essere povero, figlio del massimo ribasso, incerto. Non può essere precario.
Il lavoro è condizione concreta di orario, professionalità, salario, è diritti e doveri. È dignità.
Il lavoro non può essere nero, sommerso, schiavizzato, mercificato. Il lavoro è sapere e conoscenza, qualità e investimento.
Per questo la precarietà va combattuta, in quanto nega saperi, certezze, valore.
Il lavoro può essere anche la frustrazione, la preoccupazione e l’angoscia di perderlo; la rabbia di non trovarlo. Può trasformarsi da libertà a prigionia se invece del collocamento si incontra un caporale.
Il lavoro può trasformarsi da diritti e doveri a imposizione autoritaria quando viene negata la contrattazione, la libertà e la democrazia sindacale nei luoghi di lavoro.
Il lavoro è la trasformazione, non solo della materia, ma della società, del collettivo, delle relazioni.
Il lavoro è conflitto positivo, necessario perché presuppone interrelazione; modifica e trasforma, fa progredire.
Il lavoro è l’unica vera condizione per creare ricchezza, in ogni paese e nel mondo.
Il lavoro è sapere di avere un proprio ruolo.
L’assenza di lavoro produce un vuoto, corrode, cancella la dignità.
L’assenza di lavoro, la disoccupazione, la rinuncia a cercare lavoro perché non c’è, condannano un Paese al degrado e al declino.”

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Se, come colgo da queste parole, “il lavoro è la condizione per uscire dalla crisi” il dibattito elettorale, per quanto mi riguarda, diventa interessante se e quando affronta concretamente questo tema.

Il lavoro è la nostra sfida, perché penso sia giunto il momento di chiudere una lunga epoca di transizione, di politiche liberiste, di negazione della crisi, che non ha permesso ad ogni singolo cittadino di capire quale fosse l’obiettivo del Paese e di esserne partecipe.

È mancato negli anni che abbiamo alle spalle un’idea, un progetto, un senso collettivo. La rappresentazione di questa assenza è la proliferazione dei tanti partiti personali, l’antipolitica, l’allontanamento dalle istituzioni.

Uno spaesamento che, unito ad una crisi che morde sempre più in profondità, induce alla tecnocrazia, alla rassegnazione, all’impossibilità di immaginare un futuro migliore e di costruirlo nel presente.

Per questo, anche nel linguaggio dei candidati alle elezioni il discrimine è tra che si propone in quanto parte di un collettivo e chi invece usa il collettivo per proporre se stesso.

Questa non può essere la stagione dell’ognuno per sé, della continua destrutturazione della rappresentanza sociale, né di quella politica che, autonome ma non autosufficienti, sono fondamento della democrazia e della partecipazione.

Allo stesso modo bisogna che sia chiaro a tutti che la ragione che acuisce il disagio e la tensione sociale è la contemporanea presenza della disoccupazione che cresce, quella record dei giovani, insieme al reddito che diminuisce.

Oggi la sola CGIL ha cercato di dar corpo ad una proposta organica di ripresa economica partendo dal lavoro e lo ha fatto con un impegno collettivo interno all’organizzazione e aperto ai confronti con università, studiosi, associazioni, e associazioni delle imprese con l’ obiettivo comune, a cui la CGIL e il Paese non possono rinunciare, che è quello della piena e buona occupazione.
E’ una campagna elettorale che si gioca anche su un altro discrimine: l’Europa.

Senza Europa non c’è neanche l’Italia. Anche qui, non serve rimpiangere il tempo che fu. I costi sociali ed economici del ritirarsi dall’Eurozona sarebbero drammatici per il nostro Paese; il costo politico della fine dell’unità europea sarebbe tragico.
Indubbiamente, però, stare in mezzo al guado, come è oggi l’Europa è altrettanto negativo. Favorisce instabilità e recessione, è foriero di crisi continua.

E quindi il discrimine è tra le forze che intendono rilanciare con forza l’idea degli Stati Uniti d’Europa, quelle che si accontentano del modello attuale, quelle che pensano ad una dissoluzione del sistema e un ritorno all’antico.

Credo che vadano sostenute quelle forze politiche e, per non essere ciechi, quei candidati che maggiormente rappresentano e condividono un’idea sociale, politica, economica per rilanciare il progetto europeo. In sostanza sostenere un’idea che sia di sbarramento al ritorno al passato e nello stesso tempo di rifiuto di una Europa neo liberista basata su trattati che oggi strangolano le economie, come il fiscal compact.

La vicenda elettorale si gioca su un secondo discrimine: quello dell’equità fiscale. Si tratta di decidere tra una seria progressività della tassazione, una tassa sulle grandi ricchezze, sui patrimoni e sulle rendite finanziarie mobiliari e immobiliari oppure su un fisco solo teoricamente più leggero e nel contempo distruttivo di ogni presupposto di solidarietà sociale o, come sostiele la Lega e il centro destra, di fisco « regionale » e poi, perché no, provinciale, comunale, di quantiere o magari di condominio.

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Si tratta di osservare con attenzione il rapporto tra pratica politica messa in campo negli ultimi anni e facili dichiarazioni elettorali sulla lotta all’evasione fiscale. C’è chi si è impegnato in questa direzione, magari con limiti e qualche contraddizione e c’è chi ha mitizzato la figura dell’evasore facendolo diventare una sorta di Robin Hood che ruba allo Stato « ricco » per non stravolgere la propria condizione di « povero ricco ».

Il discrimine elettorale si gioca inoltre sull’idea di sviluppo che si intende dare al Paese. Se tutti siè concordi che, dopo questi anni, « nulla più sarà come prima », dobbiamo misurarci su come sarà il futuro. E non un futuro lontano ma un futuro prossimo.

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La retorica ha accompagnato e continua a farlo molte autorevoli ricette: le esportazioni risolveranno tutto; il lavoro va ulteriormente riformato perchè non corrisponde alla modernità e alle esigenze della globalizzazione; bisogna intervenire ancora sul sistema previdenziale; il pubblico deve ridursi; il piccolo è bello; l’impresa è autosufficiente ovvero autoassolta; l’industria non è il futuro; un rigoglioso terziario è la soluzione; aprire ai consumi alla domenica alimenta commercio e produzione; incontaminate ma ben cementate mete turistiche sono la nostra vocazione.

Non si può riproporre ad un Paese sempre più in difficoltà, sfiduciato e che non vede la luce all’orizzonte, l’idea che il lavoro, la condizione di lavoratori e pensionati, il futuro delle giovani generazioni, siano sempre la sola variabile da comprimere. Un modello costruito sull’idea degli anziani come un costo e non una risorsa, lo stato sociale un “privilegio” da ridurre, il Paese un oggetto da consumare insieme all’ambiente e alla salute, i giovani un gadget da usare nelle conferenze per barare sul « conflitto generazionale ».

Abbiamo bisogno di guardare al Paese come è, nelle sue difficoltà, nelle sue miserie, ma soprattutto nelle sue straordinarie potenzialità. Guardare alla crisi che dura già da cinque anni e che non accenna a finire, che ha bisogno di scelte vere e strutturali. Alla crisi che cinque anni fa si poteva contrastare con le politiche anticicliche ma che oggi, da sole, non rappresentano una risposta sufficiente, e questo ci dà la misura della profondità della crisi.

Rimanere in quel recinto retorico è la vecchia idea che non permette di uscire dalla crisi, è l’idea del lasciar fare, del mercato che si autoregolerà nuovamente. Serve un’altra idea e, come dicevamo, serve un governo che riconosca i limiti dell’agire di tanti anni trascorsi e valorizzi le potenzialità partendo dalle risorse che ha il nostro Paese.

Gli italiani vivono in Italia ma sono anche cittadini del Mondo. La vecchia e la nuova migrazione si interseca, ripropone antiche questioni, ridisegna aspettative, rimudula le priorità. E, si vota anche all’estero e lo si fa sia per ridisegnare l’Itala che per auspicare una diversa e più coerente attenzione ai propri migranti.
Per gli italiani all’estero le cose positive da mettere nel piatto destro della bilancia sono di gran lunga inferiori a quelle negative, normalmente, (come cantava Gaber), messe nel piatto sinistro. Chiarendo, ben inteso, che nei risultati positivi non si possono semplicemente annoverare gli esercizi di rappresentanza parlamentare fatti di tante interpellanze e interrogazioni delle quali, ovviamente, siamo grati. La constatazione di merito è che quasi sempre le interpellanze sono rimaste tali e le interrogazioni hanno prodotto risposte inconcludenti e senza effetti concreti.

Va detto subito che le responsabilità sono collettive, comprese le nostre che ci siamo spesso limitati a segnalare i problemi senza la naturale capacità lobbystica che è la forza dei successi legislativi. Ma, oggettivamente, fare lobby sparpagliati in decine di Paesi è una pratica che si può enunciare ma difficilmente realizzare.

Ora siamo chiamati a votare e lo faremo anche se dolorosamente colpiti che migliaia di giovani « erasmus » e un più consistente esercito di normali (e quasi sempre giovani) migranti non iscritti all’Aire saranno materialmente ed economicamente impediti di esercitare un diritto costituzionale.

Il voto all’estreso può, a seconda di come viene esercitato, costituire un grande valore o una triste prassi. Un grande valore se, concretamente le forze politiche che si contendono il risultato, danno voce ai cittadini italiani migranti e ne colgono le aspettative concrete, Una triste prassi se serve per portare in Parlamento una manciata di “signori e signore”, come già accaduto in giro per il mondo con le ultime elezioni politiche, per i quali la condizione dei loro “rappresentati” è abilmente usata nei comizi e nelle riunioni elettorali.

Per queste banali considerazioni è chiaro che la scelta dei candidati non è un mero calcolo politico ma si fa sul merito, sulla competenza e, se mi si permette, sulla condivisione di uno status che per capirlo, bisogna viverlo.

Le esperienze di partecipazione politica o di semplice attenzione alla politica stessa quali indicatori di come un cittadino migrante si sente coinvolto nell’esercizio di un diritto fondamentale sono molto diversificate. E lo sono perché sono diverse le esperienze, i modelli di integrazione nella società ospitante, gli aspetti materiali del rapporto “cittadino emigrato-Italia”. E’ chiaro a tutti che la mobilità in europa determina connotati di interazione con l’italia sicuramente più organici: indipendentemente dal Paese ospitante si rimane parte di una entità sovranazionale quale l’Europa Unita.

Ma questa partecipazione va curata, ha bisogno di costante “manutenzione” che si fa esclusivamente amplificando la capacità di ascolto da parte dei rappresentanti eletti: proprio perché “rappresentanti!.

Una cosa appare evidente: anche dove i partiti italiani hanno mantenuto una struttura organizzata, l’impatto della stessa nella vita « normale » delle persone fatta di lavoro, scuola, sicurezza sociale, cultura, abitazione, salvo lodevoli eccezioni, è praticamente irrilevante. Ciò che conta sempre di più è la capacita di integrazione locale sia per i singoli sia per i sistemi associativi.

Laddove il risultato di una concreta integrazione nelle comunità locali si sviluppa e si concretizza, cresce la coscienza civica e si rafforza il senso della doppia appartenenza: alla comunità locale che è quella con la quale convivi, alle tue origini per il naturale bisogno di mantenere salde le radici. Laddove non tutto ciò non si determina, sono proprio i nostri migranti e i loro figli a vivere una condizione che, se non di antica ghettizzazione, è di marginalità spesso sociale oltre che culturale.

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C’è chi usa per raccogliere consensi slogan fuori tempo. “Torna per votare, vota per tornare” sembra la replica di quanto è successo alla fine degli anni 90 con la crisi argentina e con troppe sirene che incitavano i giovani italo-argentini a tornare in Italia perchè avrebbero trovato una accoglienza di qualità. Si produssero 2 risultati: gli immigrati anziani si trovarono in una nuova solitudine, i giovani che partirono finirono negli alberghi e nella ristorazione adriatica e, terminato l’incanto, ovvero la stagione tutistica, la più parte dovette ripercorrere la triste strada del ritorno.

Ora parliamo di Nazione Europa e allora « torna per votare, vota per tornare » sa veramente di retorico.

Le parole chiavi della partecipazione alla vita politica e sociale che danno senso ad una concreta integrazione tale da mettere in luce le nostre competenze e la nostra identità, sono almeno 2: la doppia cittadinanza e l’ottenimento del diritto di voto almeno nelle comunità locali.

Ora veniamo al punto: l’Italiano all’estero si aspetta dal suo rappresentante che ha votato al Parlamento italiano, una tutela dei suoi diritti in quanto italiano e un impegno concreto per migliorare la sua condizione di migrante con adeguate relazioni bilaterali che sostengano efficacemente l’integrazione.

Poi ci sono gli aspetti più materiali, quelli quotidiani che incidono nella qualità della vita e che, purtroppo per noi, o sull’altare del rigore o su quello del rigore, nel corso degli ultimi anni hanno prodotto una insostenibile condizione per i nostri concittadini e, come sempre, in particolare per i meno abbienti.

Provo ad elencare quelli d’uso quotidiano più vicine alla mia esperienza diretta sapendo di tralasciare questioni sicuramente rilevanti sia di natura economica che sociale.

IMU

In tutti i paesi civili i proprietari di un bene immobile pagano su di esso un’imposta congrua. Ma l’italiano residente all’estero e che vive magari pagando un affitto non capisce perchè la sua casa, laddove non sia usata da terzi in maniera onerosa, venga considerate come “seconda casa” e ciò sia fatto sulla base di un libero arbitrio delle singole amministrazioni comunali con un palese vizio costituzionale.

Ora, si può comprendere una disattenzione frettolosa del legislatore poco attento a quanto accade per i suoi connazionali ma, il presidio dei nostri parlamentari eletti all’estero dov’era? E non sarà sufficente che ci si dica (o si mostri) il testo delle interrogazioni presentate perchè, per la gente, contano i risultati.

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Pensioni

Il pensionato italiano che vive all’estero è martoriato dall’INPS. L’INPS ha deciso nei suoi organismi di esternalizzare attività proprie obbligando il pensionato a relazionarsi con terzi che non conosce. L’esempio della certificazione dell’esistenza in vita, regola che va sostenuta per evitare abusi, è diventata una via crucis inimmaginabile per il pensionato e per gli stessi patronati all’estero achiamati « gratuitamente » a sostenere migliai di persone in un percorso ad ostacoli impressionante.

Ora, proprio in coincidenza con la campagna elettorale, l’INPS ha scritto a migliaia di persone chiedendo l’invio della loro dichiarazione redittuale per il 2010. Gran parte di queste dichiarazioni era già stata fatta, gran parte delle prestazioni che necessitano il riscontro redittuale sono erogate dall’ INPS salvo accertamento come nel caso delle 14esime mensilità.

Anche in questi casi le soluzioni sono semplici e alla portata sia dell’INPS che delle inprese in appalto ( a proposito: sarebbe utile conoscere quanto costa l’appalto).

E così, anche in questi casi, sarebbe utile capire perchè i nostri rappresentanti politici (parlamentari eletti e loro forze politiche di riferimento) non riescano a imporre norme chiare e facilmente esigibili.

Fisco

Le convenzioni bilaterali sono di gran lunga datate. Necessiterebbero di adeguata manutenzione e, in alcuni casi, di concreta riscrittuta (vedi l’esempio di quella itlo-francese siglata nel lontano 1992.

Specifica è la situazione dei lavoratori transfrontalieri sia sul versante fiscale sia su quello delle prestazioni sociali. Anche in questo caso, parlando di Europa e di Paesi che sono all’interno dell’UE o dello spazio economico. Non esiste una normativa univoca come sarebbe logico e auspicabile e, ogni anno, si ripetono rituali inutili per confermare regole eternamente « transitorie ».

Vale anche per questa parte quanto detto nel capitolo precedente. Cosa si è fatto e quali risultati si sono raggiunti.

Consolati / Comites

I Consolati, cioè la presenza concreta dello Stato soprattutto nei Paesi di immigrazione funzionano male e i servizi per gli Italiani diminuiscono sempre di più. L’abrogazione delle funzioni notarili ha colpito molto la collettività che è costretta a rivolg, hanno pagato oltre l’inimaginabile la condizione di crisi presente nel Paese. Alla necessaria e utile riorganizzazione degli stessi basandola sui servizi resi più che sulla « pletora » della rappresentanza si è preferito tagliare per non riorganizzare.

Ora lo Stato ha incrementato la sua lontananza dai suoi concittadini e lo ha fatto proprio quando la riorganizzazione dei servizi si è appesantita di regole legate alla sicurezza che rendono spesso impossibile ottenere il semplice rinnovo della Carta di Identità.

Che fare?. Anche in questo caso vorremo chiedere ai nostri parlamentari non tanto e non solo come loro hanno rappresentato il problema (e ci auguriamo che lo abbiano fatto adeguatamente) ma quale sia il risultato delle loro denuncie sia all’interno dei rispettivi partiti, sia in sede parlamentare.

Capitolo a parte per i Comites. Nascono come strutture al servizio della comunità, per loro è prevista l’elezione diretta ma dal 2009 non sono stati più rinnovati. Le loro risorse sono dstate tagliate, e, anche in questo caso, salvo encomiabili esperienza, il loro ruolo si è ridotto alla organizzazione di eventi legati alla italianità più che a quello di interfaccia tra comunità italiane e istituzioni.

I giovani.

Si continua a confondere le cose parlando quasi esclusivamente di fuga dei cervelli come se perdere un ottimo carpentiere, un cuoco, un artista, un infermiere, un semplice operaio non sia, comunque, perdere una parte di competenze importanti se non decisive per la crescita. I giovani migrano, anzi, in europa diventano cittadini europei mobili, per ragioni che travalicano le antiche regole dell’emigrazione.

Lo fanno sia perché non trovano sbocchi concreti e corrispondenti ai loro percorsi formativi, sia perché vivono la globalizzazione non solo derivata da internet ma da un desiderio atavico, proprio per un popolo di “naviganti”, di muoversi e conoscere.

Questa straordinaria novità produce nuove domande, nuove tutele. Richiede nuovi servizi, determina priorità che le generazioni più vecchie non hanno conosciuto e non conoscono.

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Cosa si fa per loro.? E cosà si fa per loro sia a livello parlamentare sia a livello governativo nei rapporti bilaterali e in quelli Comunitari o, nel sud America, in quelli del Marcosur?. Ribadisco “cosa si fa” non cosa si dice che si vorrebbe fare perché il cosa si vorebbe fare e una nobile arte del parlare. Ma alle persone serve l’altrettanto nobile arte del “fare”. E di farlo bene.

L’italiano che vive all’estero, al pari dello “straniero” che vive in Italia deve diventare parte integrante nel paese in cui vive. Deve conquistare pari opportunità nella vita culturale, sociale, economica e anche politica. Un’ottima formazione professionale è indispensabile per raggiungere quest’obiettivo. Oltre la scuola esistono problemi come l’inserimento nel mondo del lavoro, gli alloggi, fino alla politica per gli anziani. Quanti pensionati italiani vivono all’estero non solo in povertà ma in completa solitudine, senza che nessuno si occupi di loro?

Ecco, in conclusione il tutto si può semplificare con due domande retoriche: “come si pensa di affrontare questi e tante altre questioni che interessano la nostra comunità e che ne determina spesso le condizioni di vita e di lavoro?”
“Quanto di queste cose che non sono una novità del 2013 saranno presenti, almeno nella declamazione dei principi nei programmi elettorali?.”

Infine devo, per onestà intelettuale, parlare delle scelte del partito nel quale milito. La riconferma di tutti i parlamentari uscenti (indipendentemente da qualsiasi giudizio) è probabilmente causa di preclusione per qualsiasi rinnovamento che sarebbe stato sicuramente opportuno anche per i soli requisiti anagrafici.

Per questo, ben sapendo che in politica, così come in altre esperienza di vita sociale, l’accompagnamento e la consegna del testimone è un costume poco usato (salvo esserne costretti dalle regole con le relarive deroghe) credo che ognuno di noi, avendo chiaro il concetto di appartenenza, debba sforzarsi per investire nel ricambio che non è necessariamente solo generazionale.

Ma questa è un punto di vista di un semplice militante.

Italo Stellon

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