I tempi “stretti” della lingua italiana

In un articolo consacrato alla forte opposizione che incontra il governo Monti nei suoi tentativi di ridurre spese, disfunzioni e ritardi tra cui la lentezza della Giustizia (Il Corriere della Sera: « Vacui riformatori veri resistenti »), il giornalista Angelo Panebianco ricorre al termine “tempi” usato in quel senso molto particolare, e ridicolo, che è diventato ormai regola in Italia.

Il giornalista scrive: « Si pensi alle recenti sentenze della Corte costituzionale: dalla bocciatura dei tagli agli stipendi di magistrati e alti funzionari fino al ‘no’ a un modesto provvedimento che mirava a ridurre i tempi della giustizia civile. » I “tempi della giustizia civile” è indubbiamente una bella espressione: vaga, vaporosa, indistinta, quasi poetica… La giustizia civile dovrà cambiare i tempi, insiste Panebianco. Ma qualcuno potrebbe obiettare: il sistema giudiziario italiano è quello dei tempi nostri e sarà difficile fargli cambiare decennio o addirittura secolo. Quel che Panebianco auspica invece è che il funzionamento del sistema giudiziario diventi più rapido ed efficiente. Il ritmo della Giustizia, insomma, secondo l’articolista, dovrebbe accelerare. Ma perché non dirlo chiaramente? Semplicemente perché nella terra dei ritardi cronici e dei continui slittamenti le parole “lentezze”, “ritardi”, “scadenze”, “durata”, “termini” sono completamente sparite dal lessico.

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In Italia nulla più è rapido, veloce, nulla si fa rapidamente, celermente e via di seguito. Termini tutti rimpiazzati dagli immancabili “tempi”; “lunghi” o “rapidi” o “stretti” che siano. Sparite ugualmente le espressioni “a breve termine”, “a lungo termine”, “a breve scadenza”, “a lunga scadenza”, “a lungo andare”… Esse sono state gettate al ferri vecchi insieme con l’“arco” e il “lasso di tempo”, residuo di epoche antiche, per far posto ai famigerati “tempi” e a queste altre due espressioni trionfanti del burocratese della casta dei giornalisti e dei politici: “nel breve periodo” e “nel lungo periodo”.

Nessuno, a quanto mi risulta, si è ancora soffermato su questa diarrea di “tempi”, che gli organi d’informazione propinano in tutte le salse in un paese conformista come l’Italia, dove la regola suprema della lingua non è la chiarezza ma il sacrosanto “suona bene?” e dove chi rifiuta di essere alla moda, anche linguistica, si autocondanna alla morte civile. “Tempi” – torno a ripetere – sempre al plurale e, non appena è permesso, gagliardamente accoppiati a “rapidi”, o anche a quei “stretti” e “lenti” che sembrano dare ancor più godimento.

I francesi, a causa del loro rigore linguistico d’altri tempi, continuano imperterriti a servirsi dei loro délais, retards, à long terme, à brève écheance, bientôt, prochainement, rapidement… e rendono, ad esempio, la nostra bislacca frase « In ultima analisi, i tempi sono forse meno lunghi » semplicemente con « En dernière analyse, les délais sont peut-être moins longs« . E traducono, imperterriti, la nostra burocratica espressione “Richiederà tempi lunghi” con “Il faudra beaucoup de temps”. Da noi, invece, solo un nostalgico dei tempi linguistici del “bagnasciuga”, e della campagna a favore del tu e del voi al posto del lei, si sognerebbe oggi di scrivere senza arrossire: “Ci vorrà molto tempo”.

L’uso imperterrito da parte dei francesi delle espressioni che ho appena menzionato – à long terme, à brève écheance, bientôt, prochainement, rapidement… – e del passatista Ça prend trop de temps invece del nostro nobile “Occorrono tempi lunghi,” è un’ulteriore prova, secondo gli italiani, del mai abbastanza condannato sciovinismo francese. Ma cosa ci si può aspettare – si dicono gli italiani ridacchiando – da un popolo che chiama ordinateur l’universale, sacrosanto “computer”? L’arroganza dei nostri cugini d’Oltralpe non ha limiti. È proprio il caso di commentare: Incroyable!

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Ma persino i tanto ammirati anglo-americani – maestri di lingua per gli abitanti della penisola, adusi allo scimmiottamento degli stranieri – dicono e scrivono con asciuttezza It takes too much time… il che disorienta, e non poco, gli italiani i quali sono costretti ad ammettere, con grande disagio – loro che da tempo sfruconano linguisticamente con piacere le terga anglo-americane – che l’inglese è pieno di pedestri shortly, in a short time, fast, in the long run, in the short term… Unbelievable! devono dirsi gli italiani.

Da quanto ho detto appare quindi chiaro che chi dovrà tradurre in francese, oppure in inglese, i nostri “tempi” – rapidi o lenti, stretti o addirittura ristretti, che siano – dovrà ricorrere a un’estenuante varietà di espressioni.

Che fastidio per i traduttori!

Come rendere, infatti, in inglese o in francese i nostri “tempi lunghi” e “tempi brevi” che il traduttore trova ficcati ovunque nei testi italiani? Niente panico: chi ha l’ingrato compito di tradurre in inglese le frasi italiane farcite di “tempi” potrà ricorrere agli esempi generosamente offerti da un sito Web che ho avuto la fortuna di scoprire. Ripeto: in un sito web ho trovato una lunga pagina consacrata alla traduzione in inglese dell’onnipresente “tempi”. Gli infelici addetti ai lavori di traduzione dall’italiano sanno che non è per nulla facile dare a questi infelici “tempi” italiani l’equivalente inglese, dal momento che i parlanti la lingua di Shakespeare non praticano ancora l’autocastrazione e l’immiserimento verbale cui si consacrano indefessamente invece i parlanti e gli scriventi italiani, ossessionati dalle mode e dal “suona bene”, e attratti irresistibilmente dai “flop”.

Per la frase italiana « La diplomazia ha tempi lunghi », sul sito ci propongono « Diplomacy works slowly« . Un commento s’impone: anche nella penisola – in altri tempi – si sarebbe detto semplicemente: « La diplomazia agisce con lentezza, lentamente ». Al giorno d’oggi, invece, solo dei passatisti nostalgici farebbero uso di un antidiluviano “con lentezza” o “lentamente”, rischiando anche di non essere capiti dalle nuove generazioni.

« Dobbiamo tuttavia riconoscere che i tempi sono stati piuttosto lunghi » è un’altra frase italiana di cui è proposta la traduzione nei seguenti termini: « We do have to note, of course, that all this took rather a long time. » Fino a ieri anche noi, ignari, ci saremmo azzardati a scrivere, sfidando il ridicolo dei posteri: « Dobbiamo tuttavia riconoscere che c’è voluto molto tempo ».

E cosa ci propongono in inglese, in questa pagina web destinata ai traduttori dall’italiano, per il nostro “I tempi sono stretti”? Nient’altro che: « Therefore, our time is short. » Per la frase italiana di tipo rebus « Quindi, siccome i tempi di ratifica sono molto lunghi, abbiamo tempi stretti », la traduzione suggerita è « Therefore, since a long time is needed for ratification, our time is short. »

Una constatazione d’ordine generale s’impone: il tempo per gli anglo-inglesi ha conservato il singolare: “time” ossia “tempo”. In Italia, invece, forse a causa del cronico torpore della burocrazia, e dei tanti ritardi e slittamenti e delle infinite scadenze non rispettate, il tempo ha figliato, come serpentelli, questi innumerevoli “tempi” che s’insinuano in tutti gli orifizi.

Continuando nella lettura degli esempi di traduzione in inglese dei “tempi” italiani, fornitici dal sito summenzionato, incontriamo la frase italiana: « La liberalizzazione dell’UE per il settore automobilistico richiederà tempi più lunghi ». Essa è tradotta in soldoni inglesi con un chiarissimo, anche se per le orecchie italiane poco aulico: « The EU liberalisation of the motor car sector will take longer« .

La frase « Non sarebbe possibile attuare la riforma in tempi più lunghi? » dà luogo in inglese a « Would it not be possible to extend reform over a longer period?« 

rendere comprensibile la sibillina proposizione « I tempi divengono talmente lunghi che i criminali vengono scarcerati », il sito web ci propone invece, chiarendo il tutto: « It can take such a long time that the criminals are simply acquitted. »

« Confidiamo che la Commissione possa provvedervi in tempi non troppo lunghi » è tradotto sobriamente e chiaramente così: « Let us hope that action will be forthcoming in the not too distant future. »

La frase « Queste date indicano che i tempi sono più lunghi di quanto non si possa pensare » dà in inglese: « This illustrates that all it sometimes takes longer than expected. »

« Inoltre, deploro i tempi troppo lunghi per ottenere un inventario delle necessità di trattamenti pediatrici » dà luogo a « I also regret the long delay in obtaining an inventory of needs for paediatric treatments. » Dal che si vede che gli anglo-americani continuano ad usare delay.

In Italia, invece, gli indugi e i ritardi, anche se frequentissimi in un Paese ricco di proroghe e slittamenti, sono stati linguisticamente fagocitati dagli onnipresenti “tempi”. Di “indugi” e “ritardi” non si trova quindi più traccia negli scritti dei giornalisti italiani, tutti adeguatisi ai nuovi “tempi”.

Siccome nulla più si fa rapidamente in Italia, si cerca almeno di farlo in “tempi meno lunghi”. Quindi la frase « Il Parlamento dovrebbe, teoricamente, esserne lieto perché, in ultima analisi, i tempi sono, forse, meno lunghi » per essere resa comprensibile agli anglofoni perde il suo smalto burocratico – apprezzatissimo in Italia, terra delle anticamere; infatti è resa in inglese così: « This House should theoretically be pleased, because progress might perhaps be more rapid at the end of the day. »

« Adire la corte è costoso e l’esame delle cause richiede tempi lunghi » dà luogo a un prosaico ma efficace: « It costs a lot of money to go to court and the proceedings take a very long time. »
« Siamo quindi contrari ad una commissione d’inchiesta, poiché richiederebbe tempi troppo lunghi » in inglese dà « We are therefore not in favour of a committee of enquiry, as this would take too long. »

Anche noi, italiani d’altri tempi, avremmo potuto scrivere fino a ieri, senza temere lazzi e incomprensioni, una frase come Richiederà “molto tempo”, “più tempo”, “troppo tempo”, “meno tempo”, “poco tempo”.

Ma oggi nessuno, nella penisola, è disposto a scendere a un livello linguistico così basso usando quel “tempo” al singolare di cui in Italia oramai si serve solo il “colonnello-meteorologo” nelle sue previsioni – quasi sempre catastrofiche – sul tempo che farà nella Penisola.

Claudio Antonelli
Da Montréal

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Claudio Antonelli
Claudio Antonelli (cognome originario: Antonaz) è nato a Pisino (Istria), ha trascorso la giovinezza a Napoli, oggi vive a Montréal (Québec, Canada). Bibliotecario, docente, ricercatore, giornalista-scrittore, è in possesso di diverse lauree in Italia e in Canada. Osservatore attento e appassionato dei legami che intercorrono tra la terra di appartenenza e l’identità dell’individuo e dei gruppi, è autore di innumerevoli articoli e di diversi libri sulle comunità di espatriati, sul multiculturalismo, sul mosaico canadese, sul mito dell’America, su Elio Vittorini, sulla lingua italiana, sulla fedeltà alle origini e la realtà dei Giuliano-Dalmati in Canada, sull’identità e l’appartenenza...

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