È stato il figlio (Mon père va me tuer), di Daniele Ciprì

Il film si apre su di un interno familiare al pubblico italiano, un luminoso ufficio arredato con sedie in legno chiaro e sobrie decorazioni nelle tinte del giallo e del blu: un’agenzia delle Poste.

Mentre i numeri del tabellone luminoso scorrono senza fretta, la maschera scarna di un Alfredo Castro quasi irriconoscibile ‐ senza quella luce folle che gli accendeva lo sguardo in Tony Manero ‐ recita in maniera meccanica il prologo del suo racconto nero a qualche compagno d’attesa incuriosito dalle sue parole strisciate, mentre dalla vetrata alle sue spalle la scena di un tamponamento condita da urla e strepiti contribuisce a creare un effetto di generale straniamento.

Questa sequenza basterebbe da sola a descrivere la particolare cifra stilistica (il “grottesco”) che Daniele Ciprì ha utilizzato sin dai suoi esordi televisivi in coppia con Franco Maresco. Entrambi palermitani, sono stati gli alfieri di un cinema radicato nell’universo del sottoproletariato urbano siciliano, dipinto in un bianco e nero dai contrasti vividi e popolato di figure bizzarre che sembrano una rilettura in chiave trash dei freaks di Todd Browning.

Mon père va me tuer” ripercorre le orme tracciate dai primi lungometraggi firmati Ciprì e Maresco, ma si giova di una struttura narrativa più solida, che è quella che gli deriva dall’adattamento del romanzo omonimo di Roberto Alajmo.

La preoccupazione principale, dice il regista Daniele Ciprì, è stata quella di rendere la narrazione “universale”, separandola quindi dal contesto realistico dell’ambientazione palermitana e segnando cosi’ un ulteriore distanziamento dalla produzione precedente.

E’ anche per questo che le riprese sono state effettuate a Brindisi anziché a Palermo, nonostante il fatto che il dialetto e i riferimenti nei dialoghi riportino la vicenda alle sue radici siciliane.

mon-pere-va-me-tuer-cipri.jpg

La storia è ambientata a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, e racconta le peripezie di una famiglia di disperati che, vissuta la tragedia della scomparsa violenta e improvvisa della figlia piccola, scopre che non tutti i mali vengono per nuocere: lo Stato italiano riconosce infatti alle vittime di mafia un sostanzioso risarcimento.

La sola idea della fortuna che gli sta per calare dall’alto, trasforma il povero Nicola Ciraulo, il capofamiglia, in un “reuccio” che comincia a indebitarsi ancor prima di intascare il malloppo. La sola cosa alla quale comincerà a dedicare ogni sua attenzione sarà l’agognata Mercedes, materializzazione in lamiera zincata e cromature della rivalsa sociale e della “rispettabilità”.

Ma la tragedia puo’ anche non aver fine, e a volte si manifesta con una semplice ammaccatura, un “graffio” di sapore pirandelliano.

L’ammaccatura è quella che suo figlio Tancredi – interpretato da Fabrizio Falco, premiato a Venezia come miglior attore esordiente – procura alla macchina dopo un’uscita di soppiatto insieme al cugino Masino, e che scatenerà la tragedia finale.

Come in una resa dei conti per lungo tempo attesa, è in questo momento che i destini della famiglia vengono decisi: ma a farlo non saranno gli uomini, che la tragedia hanno in qualche modo causato, bensì le donne – Loredana, moglie di Nicola e Mamie Rosa, sua madre, sino ad allora figure secondarie all’interno del clan familiare dominato dai maschi.

mon-pere-va-me-tuer-e-stato-il-figlio-02-01-2013-14-09-2012-4-g.jpg

La fiaba nera di Daniele Ciprì è talmente calzante al suo soggetto – il romanzo di Roberto Alajmo ‐ e lineare nel suo sviluppo, che potrebbe essere considerata una sorta di studio sociologico sulla società italiana e, in particolare, su quella meridionale.

Ha infatti il merito di condurre un attuale quanto spietato ritratto delle paure e delle angosce dell’italiano medio, e di descrivere al tempo stesso la portata ridotta dei suoi sogni e delle sue aspirazioni.

Ma cio’ che aggiunge è davvero inedito, perlomeno rispetto alle uscite cinematografiche degli ultimi anni (pensiamo naturalmente a Reality di Matteo Garrone): nella sequenza finale, quella che chiude il cerchio, e che è esattamente quella dell’esplosione della tragedia (mentre l’ultima sequenza in senso temporale rappresenta una sorta di epilogo della tragedia stessa), il ruolo principale è giocato dalle donne, in un ribaltamento della scena che dà al quadro d’insieme una grande forza emotiva e ai personaggi femminili una sacralità ancestrale.
“E’ stato il figlio” (Mon père va me tuer) è un ritratto fedele di una società retta su di un patto segreto custodito dalla componente femminile, in un modello matriarcale che ci è stato raccontato anche dalle pagine di cronaca oltre che dalle inchieste sui fatti di mafia.

E’ anche grazie alla magnifica interpretazione delle sue attrici – Gisela Volodi e Aurora Quattrocchi, oltre a quella del sempre ottimo Toni Servillo, che Daniele Ciprì ha saputo elevare il racconto di Alajmo al rango di affresco universale sulla miseria di una certa condizione sociale e sul cinismo che la sostiene.

I paesaggi desolati di una periferia meridionale qualunque sono lo sfondo ideale perché questa storia possa essere immaginata ovunque il disinteresse delle istituzioni ‐ sociali e politiche ‐ ha lasciato traccia di sé.

Raffaello Scolamacchia

***

Distribution en France:
Bellissima
www.bellissima-films.com “E’ stato il figlio” di Daniele Ciprì ha ottenuto il Premio per il migliore contributo tecnico alla Mostra del cinema di Venezia 2012.

Article précédentLa “salita in politica” di Monti, tra inganno ed illusione
Article suivantIl cinema d’arte e la montagna

LAISSER UN COMMENTAIRE

S'il vous plaît entrez votre commentaire!
S'il vous plaît entrez votre nom ici

La modération des commentaires est activée. Votre commentaire peut prendre un certain temps avant d’apparaître.