Giorgio Caproni a 100 anni dalla nascita: Il poeta libero.

“Annina: madre o fidanzata? Una soluzione al problema del tempo in poesia”. Versi livornesi da Il seme del piangere. A cento anni dalla nascita di Giorgio Caproni, con pochi convegni tra cui Bologna che l’hanno ricordato. Un poeta in controtendenza e di grande attualità con la sua prosa lirica e la sua libertà.

Il seme del piangere, viene pubblicato dalla Garzanti nel giugno del 1959. La raccolta si compone di due sezioni: una contiene Versi livornesi, l’altra contiene Altri versi e Imitazioni. Imitazioni contiene a sua volta poesie tradotte e personalizzate da Jacques Prévert, Guillaume Apollinaire e Federico Garcia Lorca, mentre la sezione Altri versi ha al suo interno alcuni componimenti che, per il periodo in cui vennero composti, sarebbero potuti apparire ne Il passaggio di Enea, (alcuni di questi sono infatti dei primi anni Cinquanta) ma Caproni decise di includerli ne Il seme del piangere in quanto nacquero per eventi legati alla madre Anna Picchi, o si legarono all’ambientazione livornese.

Per cercare di capire la genesi di questa raccolta, è necessario ricordare che Caproni aveva ambientato Il passaggio d’Enea a Genova, basando la raccolta sulla terribile esperienza della città – che egli definisce dell’anima – dilaniata dai bombardamenti. Il luogo dove il poeta mette in scena invece la memoria è Livorno, la città dell’infanzia, ed è significativo sottolineare questa distinzione topografica dei luoghi fra Il passaggio di Enea e Il seme del piangere andando, ad esempio, a riguardare come la poesia che esplicitamente celebra Genova, ossia Litania, pensata quasi come una preghiera alla città, come una sintesi dell’esperienza poetica giovanile dell’autore, sia apparsa per la prima volta ne Il seme del piangere e poi sia stata inserita all’interno de Il passaggio di Enea, quasi a dimostrazione di una volontà di rendere le due raccolte unitarie, anche per l’ambientazione urbana.

Certo è innegabile che le due raccolte siano comunque separate e complete nel loro insieme, ma è altrettanto impossibile non considerare come ci sia una sorta di legame di continuità tra queste, che nasce in primis nelle indicazioni della poesia della Commedia di Dante. Infatti, così come la continuità nella guida del pellegrino fra Virgilio (cantore di Enea) e Beatrice avviene senza che i due si incontrino, allo stesso modo, la citazione di Enea nell’una e il titolo Il seme del piangere, che cita il verso 46 dal canto XXXI del Purgatorio, sembra quasi un passaggio di consegne fra i due lavori. Ma quali sono le parole citate dalla Commedia, che ruolo hanno in tutto questo?

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Sono le parole con cui Beatrice riprende Dante, che confessa piangendo la propria incapacità di aver inteso l’amore che avrebbe dovuto dimostrare alla donna anche dopo la sua morte, e che usate come titolo per la raccolta di versi dedicati alla madre, presentano la nuova sensibilità di Caproni verso la poesia: una poesia che si occupa del lutto ma con la forma di un canzoniere amoroso dedicato ad una madre giovane, che diventa fidanzata, una poesia quindi che tratta questo tema con la leggerezza della forma, col disincanto verso il proprio dolore, e cerca di sublimare nel testo quasi il senso di colpa verso la persona defunta.

Inoltre, l’altra particolarità è che il poeta non si limita a ricordare e celebrare la madre scomparsa, ma si fa accompagnare da questa, che diventa una sorta di archetipo femminile, in un viaggio liminare alle porte della morte (pensiamo al testo Ad portam inferi) dove il pianto è ormai abbandonato per la consapevolezza di una nuova conoscenza della morte stessa. Questi saranno temi che Caproni continuerà a sviluppare ancora nel suo futuro percorso poetico.

Ma possiamo intanto affermare che Caproni, chiaramente, ha anche cercato una forma stilistica per proporsi ai lettori in questa sua nuova esplorazione. L’idea gli viene dallo “stilnovismo” di Cavalcanti a cui però aggiunge stilemi personali nel verso, realizzando le possibilità espressive anche della brevità. Cavalcanti, infatti, lo troviamo già in apertura della raccolta nell’incipit della prima poesia Perch’io che cita la ballatetta Perch’io non credo di trovar giammai.. mentre, all’interno dei Versi livornesi, l’eco del motivo della ballatetta si sviluppa in più componimenti come: Preghiera, Battendo a macchina, Piuma, la gente se l’additava, Ultima preghiera, dove troviamo in particolare l’esortazione alla propria anima di impegnarsi nella ricerca e nel raggiungimento della protagonista, Annina, espressa proprio con quella levità e leggerezza del testo, a cui si accennava sopra.

Emerge con chiarezza anche la vicinanza con i versi in cui Umberto Saba, in Amai, dal 1945-1947 (‘Amai trite parole che non uno/osava. M’incantò la rime fiore/amore, la più antica difficile del mondo) a evidenziare come le scelte di questi poeti vadano controcorrente rispetto alla scelta di registro che aveva individuato la poesia italiana in quegli anni.

E’ come se volessero tentare di rendere più facile il compito al lettore attraverso la semplicità di lingua e rime, come a dargli una chiave in più per comprendere i testi, solo in apparenza comunque facili: perché se è vero che esiste una naturale complessità nel rapporto tra madre e figlio, con inconsce nervature sotterranee e comunicazione più supposta che espressa, anche la semplicità della superficie dei testi, sembra dirci Caproni, non può essere risolta in ciò che appare alla prima lettura.

Ne Il seme del piangere è la figura della madre a dominare l’universo poetico di Caproni: è Annina che, attraverso una sorta di “stilnovismo alla maniera livornese”, rivive con levità in questo canzoniere di stampo cavalcantiano, prima come fanciulla, poi come sposa e madre. Intorno a lei la Livorno popolare e gioiosa di primo Novecento, rievocata con rimpianto dal poeta.

2012_05_2_14_22_04.jpg Ma la particolarità del canto dei Versi livornesi – la parte della raccolta appunto dedicata alla madre – sta nel fatto che Caproni sembra risolvere il problema del tempo (fondamentale per ogni poeta, per ogni pensatore. Pensiamo a Sant’Agostino, alla sua idea del tempo: egli dice che: passato e futuro non esistono in sé, ma solo e sempre come presente, nell’animo umano. Nella memoria è il presente del passato, nell’attesa il presente del futuro…ma è soprattutto nell’attenzione che si concentra il presente del presente, così la riflessione sul tempo diventa un momento essenziale dell’autocomprensione dell’io che rende l’uomo consapevole dei suoi limiti e della sua condizione di creatura, libera e intelligente… perché è proprio nel presente, nel qui e ora, che egli riflette ) delineando l’immagine di una famiglia che resta eterna nella mente di ognuno.

Egli rovescia così il tempo stesso della vita della madre, del figlio e del padre al di là dei loro ruoli: la madre si fa fidanzata, il figlio si fa padre per accompagnare nel futuro gli anni che il poeta stesso non potrà vivere. E’ come se Caproni avesse voluto descrivere, al di là della memoria, un reale tempo dell’anima che in modo ampio ci fa comprendere il pensiero, l’azione e l’amore.

Ed è in questi versi che il poeta – sempre alla ricerca del proprio se stesso e della propria anima – concentra sulla figura della madre, che non c’è più, tutti i suoi sforzi in questa direzione. Se vogliamo è anche in questo contesto che possiamo pensare alla “classicità” di Caproni: la sua visione, attualissima, risiede in questo canzoniere di amore filiale che non si arrende alla caducità dell’uomo ma, senza ignorare la morte, cerca di comprenderla attraverso la riflessione e la creazione che deve dare anche un segno di continuità per le generazioni che verranno.

L’anima del poeta – diversamente dal poeta stesso che invece è ormai vecchio e stanco – trasporta il lettore in una dimensione di giovinezza che diventa come un altro tempo vissuto in un viaggio impossibile, quello nel passato che va oltre la morte. La Livorno dove ritorna l’anima è quella dell’infanzia (dove egli ha vissuto cioè i primi dieci anni vi vita, prima del trasferimento a Genova) e l’Annina di questi testi è una donna giovane, una fidanzata.

Caproni dunque, dicevamo, risolve il problema del tempo capovolgendo la situazione del rapporto madre-figlio e mostrandoci non il suo ricordo della madre vecchia ma quello di lui ormai vecchio che va a ritrovare la madre giovane, usando l’anima come intermediaria di questa ricerca, trasferendo su di lei il proprio desiderio di tornare anche lui stesso giovane al tempo in cui lo era la madre. E’ in questo modo che si compie il viaggio, che il poeta può trasformare il tempo ormai passato in uno spazio concreto e misurabile, scindendo in due il proprio essere.

In questa strutturazione inversa del tempo, avviene l’accadimento poetico dove i vivi invecchiano e si avvicinano alla morte mentre i morti ringiovaniscono e rivivono una vita che sembra più vera di quella dei vivi stessi. Così avviene che più il poeta si allontana dalla propria infanzia e diventa vecchio e più l’immagine della madre diventa quella di una giovane donna: la « figurina » di Annina – c’è una prevalenza nella descrizione di diminuitivi e vezzeggiativi – si trasforma in mito di gioventù e di vita stessa.

Del resto non è un caso che troviamo apparire Annina, nelle poesie de I Versi livornesi, quasi sempre all’alba, metafora dello sbocciare della giovinezza, e al suo apparire la città di Livorno si apre proprio alla vita. Nel sogno, nella dimensione onirica e mitica dell’infanzia e in questo spazio atemporale, il poeta può diventare anche il fidanzato della madre, trasformarsi in proprio padre così come in una poesia posteriore, che farà parte della raccolta Muro della terra (che conterrà testi scritti dal 1964 al 1975) e dedicata al figlio –A mio figlio Attilio Mauro che ha il nome di mio padre– egli potrà trasformarsi ancora e diventare il figlio di suo figlio.

Come ebbe a scrivere il De Robertis c’è ne Il seme del piangere – ma in fondo un po’ in tutta l’opera caproniana – un qualcosa “di popolare e di sapiente insieme” che, soprattutto nella sezione de I Versi livornesi, tende quasi a rappresentare la fragilità fisiologica della natura della raccolta, sia comunicativa che metrica, ma al tempo stesso non così esente da giochi enigmatici, non così sondabile a fondo senza ricorrere a verifiche, anche antropologiche se vogliamo, su archetipi di sentimenti che ci descrivono l’amore filiale di sempre. Ci sono premesse a questo lavoro già riscontrabili ad esempio nel testo.

L’ascensore , scritta da Caproni dopo aver appreso che la madre gravemente ammalata, aveva i giorni contati. Qui, nella poesia che chiude Il passaggio di Enea, viene riprodotta la vita nella sua vulnerabile essenza, riconosciuta nel momento stesso in cui si comprende che sta per venir meno la sua matrice; qui la madre Annina, la fidanzata, vive la sua prima epifania in un sogno raccontato prima del triste risveglio; qui il Paradiso si fa realtà certa, dal panorama della terrazza su Genova contemplato con la madre si appresta a comparire il ricordo del litorale livornese dove la madre tornerà ad essere giovinetta; qui, e a seguire nella nuova raccolta che sfocerà ne Il seme del piangere , è come se l’autore avesse voluto consegnarci una linearità del senso della vita, (che in futuro si trasformerà in circolarità) una scansione cronologica della figura di Annina e della sua Livorno.

gecaproni.jpg Caproni stesso disse che questo libro aveva il significato simbolico di un fiore posto sulla tomba della madre, che era nato da pochi ricordi e vecchie foto e che, per questo, non avrebbe mai potuto avere una struttura pesante o complessa. Il fiore tuttavia non è affatto appassito col tempo, è rimasto fresco e profumato, giovane come Annina stessa che corre, anch’essa profumata, per le vie di Livorno che a sua volta il poeta ci rende in un quadro tutto nitido della propria infanzia, se pure egli già bene sapeva che la città non era più così, era stata distrutta dai bombardamenti.

Le due invenzioni, di una madre eternamente giovane e di una città eternamente rimasta uguale ai tempi dell’infanzia del poeta, ci rendono un quadro fuori dal tempo dove la protagonista resuscita e rivive in una città intatta per incontrarsi e riconciliarsi con gli affetti del poeta stesso che tuttavia, proprio per questo, non esiterà a congedarla da sé. Nascono allora le rime baciate o alterne, come a rievocare un riflesso che appare e scompare dall’infanzia, ma senza farsene carico in prima persona. Sarà infatti l’anima, come detto, a ritrovare e consegnarci il corpo di Annina, la sua figura snella e sarà l’aiuto della preghiera a permettere questo incontro.

Gian Luigi Beccaria definisce la poesia delle prime raccolte di Caproni tutta fisica-esistenziale, e l’ultima più metafisica, ma dice anche che tra le due vi sarebbe un filo di continuità: la naturalezza dell’elegia della vita quotidiana e del fantastico ricordo della madre, giovane a Livorno, de Il seme del Piangere è sfociata in quella della maturità affrontando i luoghi del mistero dell’aldilà e dell’altrove… i versi in origine sono musicali, essenziali ma cantabili, e narrano.

Sì perché la poesia è un traffico con l’inconscio di cui il poeta deve rendere conto al lettore cercando di non farlo arrendere, come se si trovasse di fronte a un gioco di parole che non gli danno nessuna informazione. Il poeta deve coinvolgere tutti, e Caproni lo fa, il critico e il semplice lettore: la sua poesia è – tra le esperienze del 900 – in questo, una sorta di eccezione. Chi comincia a leggerlo non lo lascia più.

E’ poeta passato indenne dalle mode delle avanguardie, non è classificabile e come disse Pasolini: “E’ stato uno degli uomini più liberi del nostro tempo letterario”. La sua solennità abbinata alla semplicità di una quasi-prosa, nei versi melodici e parlati, fini e popolari lo ha fato tardare ad entrare nel gusto della critica ufficiale. La sua poesia appariva facile, innocente, povera, agita come d’istinto. Ma il suo procedere franto è tenuto su da iterazioni che accumulano tensione.

E’ come se nella tradizione melodica si inserisse una nuova oralità, una musica nuova che non abbandona le tonalità. Anche Geno Pampaloni parlando de Il Seme del piangere dice che Caproni chiedendo alla sua poesia (per essere degna della madre) di essere arguta, attenta, pia, magra, trepida e ardita, fine e popolare dà al tempo stesso una definizione della sua opera, con la quale egli stesso, attraverso l’ardimento dei sentimenti e della tessitura metrica, resta avvolto in una commozione tenace del vivere, in una sorta di reverenza della letteratura verso la vita e della parola verso la verità.

E, infine, vorrei chiudere ricordando il commento di Giorgio Agamben, significativo per sgombrare la mente da equivoci interpretativi rispetto alla “splendida invenzione” caproniana (come la definisce Mengaldo) dell’uso della ballata cavalcantiana per celebrare il rapporto d’amore con la madre-giovinetta.

phpThumb_generated_thumbnail.jpg Il compito poetico non viene compreso a fondo se si guardano questi versi nella prospettiva psicologica e biografica della sublimazione incestuosa del rapporto madre-figlio: in essi c’è invece una mutazione antropologica che si compie. L’amore compie il suo rito – come detto – in una soluzione temporale (e non solo spaziale come per gli stilnovisti) incontrando il suo oggetto in un altro tempo e per la prima volta. Per questo non si può parlare di incesto: la madre è veramente ragazza che il poeta fidanzato ama, ma egli non appartiene all’uomo edipico perché scavalca gli ordini cronologici della stirpe, facendo ricongiungere le due figure, oltremodo, alle porte dell’inferno dove la madre e la giovinetta si confondono tra di loro per poi fondersi.

Dice Agamben che Anna Picchi muore come la Beatrice dantesca, non come individuo, ma a dimostrazione dell’inconciliabilità di due mondi che si urtano. La definizione di “poesie familiari” (come definì Cesare Garboli le poesie del Pascoli) non si addice a Caproni che opera inversioni temporali e scambi filogenetici tra le gerarchie familiari riuscendo, a differenza del Pascoli a trasfigurare la famiglia edipica (esperimento fallito a S. Mauro) in una valenza di antropologia progressiva dove la poesia è capace di mostrare tutte le verità (come intendevano Schegel e i romantici di Jena il compito della poesia stessa).

Cinzia Demi
Università di Bologna

Per lei

Per lei voglio rime chiare,
usuali: in -are.
Rime magari vietate,
ma aperte: ventilate.
Rime coi suoni fini
(di mare) dei suoi orecchini.
O che abbiano, coralline,
le tinte delle sue collanine.
Rime che a distanza
(Annina era cosí schietta)
conservino l’eleganza
povera, ma altrettanto netta.
Rime che non siano labili,
anche se orecchiabili.
Rime non crepuscolari,
ma verdi, elementari.

Giorgio Caproni

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Cinzia Demi
Cinzia Demi (Piombino - LI), lavora e vive a Bologna, dove ha conseguito la Laurea Magistrale in Italianistica. E’ operatrice culturale, poeta, scrittrice e saggista. Dirige insieme a Giancarlo Pontiggia la Collana di poesia under 40 Kleide per le Edizioni Minerva (Bologna). Cura per Altritaliani la rubrica “Missione poesia”. Tra le pubblicazioni: Incontriamoci all’Inferno. Parodia di fatti e personaggi della Divina Commedia di Dante Alighieri (Pendragon, 2007); Il tratto che ci unisce (Prova d’Autore, 2009); Incontri e Incantamenti (Raffaelli, 2012); Ero Maddalena e Maria e Gabriele. L’accoglienza delle madri (Puntoacapo , 2013 e 2015); Nel nome del mare (Carteggi Letterari, 2017). Ha curato diverse antologie, tra cui “Ritratti di Poeta” con oltre ottanta articoli di saggistica sulla poesia contemporanea (Puntooacapo, 2019). Suoi testi sono stati tradotti in inglese, rumeno, francese. E’ caporedattore della Rivista Trimestale Menabò (Terra d’Ulivi Edizioni). Tra gli artisti con cui ha lavorato figurano: Raoul Grassilli, Ivano Marescotti, Diego Bragonzi Bignami, Daniele Marchesini. E’ curatrice di eventi culturali, il più noto è “Un thè con la poesia”, ciclo di incontri con autori di poesia contemporanea, presso il Grand Hotel Majestic di Bologna.

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