Festival della Mente – Menti consumate.

A Sarzana, in Liguria, la 9^Edizione di uno dei più noti festival culturali italiani. Quando la cultura in piazza fa audience. Una vertiginosa kermesse di cultura e spettacolo. Dal 30 agosto al 2 settembre 2012, incontri, lezioni, spettacoli, concerti, workshop.

Resta da chiedersi con Raffaella Fontanarossa se la mentalità da auditel non contrasti con i genuini propositi degli organizzatori. Una riflessione sui rischi della cultura spettacolo.


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Si è conclusa da pochi giorni la nona edizione del Festival della Mente “il primo festival europeo dedicato alla creatività”, diretto da Giulia Cogoli e promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio della Spezia e dal Comune di Sarzana, cittadina tra Liguria e Toscana che come ogni anno ha ospitato la rassegna. Anche quest’edizione chiude con un bilancio di pubblico più che positivo, almeno dal punto di vista dell’audience che registra nuovamente il tutto esaurito per gli 85 eventi tra incontri per adulti e per bambini che si sono avvicendati nei tre giorni della kermesse.

Più che mai prevedibili dunque i toni trionfali che accompagnano il comunicato conclusivo degli organizzatori per i quali “l’eccezionale affluenza di pubblico, che ha registrato un leggero aumento rispetto al 2011, ha dimostrato che creatività e conoscenza sono beni necessari e rispondono al bisogno diffuso di approfondimento culturale, anche come antidoto all’incertezza e alla precarietà in momenti di crisi della società contemporanea”. Un dato in linea, peraltro, con le analisi del settore offerte nel panorama nazionale che, nonostante i tempi di vacche magre, registrano incrementi nei consumi culturali come cinema, teatro, mostre, e che, in parte, spiega il proliferare della formula dei festival (tra le altre fonti consultabili: il rapporto annuale di Federculture 2012: www.federculture.it).

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Tanto è vero che anche a Sarzana si lavora già alla decima edizione del festival che si svolgerà dal 30 agosto al 1° settembre del prossimo anno. Di qui al nuovo appuntamento annunciato, bilanci e programmazione per la nuova ondata, sono tempi propizi anche per qualche riflessione a margine. Come sempre, la chiusura dell’evento, prevede il rito della conta dei numeri: sostanzialmente quelli dei biglietti strappati e degli incassi, del successo commerciale che si misura anche qui, come in tv, come nelle case editrici, come nelle mostre e nei musei, con quella che è stata definita la “mentalità dell’auditel”. Così nascono le classifiche dei best seller, le mostre blockbuster, e così si fa, almeno in parte, il calendario del festival dove sono comparsi scrittori (quest’anno, tra gli altri, Erri de Luca e Paolo Rumiz), artisti (i Masbedo), attori (Ascanio Celestini, Marco Paolini) e altri intellettuali (dall’antropologo Marc Augé alla sua seconda presenza a Sarzana all’assolo del biofisico Ruggero Pierantoni).

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La maggior parte di loro sono, a vario titolo, produttori di quelle che in tanti consideriamo fra le più alte attività dell’umanità: la matematica, la poesia, la letteratura, la filosofia. E qui si pone il solito tema, magistralmente espresso in più occasioni da Pierre Bourdieu che così lo ha sintetizzato: “riportare al dominio del commercio quegli universi che a poco a poco erano stati costruiti contro o fuori da esso, vuol dire mettere in pericolo le opere più alte dell’umanità, l’arte, la letteratura e perfino la scienza” (Le Monde 14 ottobre 1999). Come dire che la logica del cosiddetto marketing rischia di rimettere in discussione le condizioni stesse che hanno determinato la nascita e la produzione di opere che diversamente non avrebbero mai visto la luce, perché, per esempio, non ci sarebbe stato per loro un pubblico di riferimento.

Altra è la finalità di un festival com’è quello della mente, “un festival per tutti”, con – come recita la brochure introduttiva – “un filo conduttore, che si può riassumere nella conoscenza come valore assoluto e imprescindibile. Non c’è futuro, non c’è democrazia, non c’è possibilità di miglioramento senza la garanzia dell’accesso alla cultura e la diffusione della conoscenza”. Come non essere d’accordo. Ed è proprio questo il punto. Siamo certi che, al di là dell’audience, della presenza massiva, delle piccole folle che per tre giorni vagano e rallegrano il bel centro storico di Sarzana, le stesse che pur per il breve periodo riempiono le sue meravigliose pasticcerie, bed and breakfast e ristorantini… siamo certi, sappiamo, abbiamo un’idea di che cosa, di tutto questo, nei frequentatori del festival, nelle loro menti appunto, rimanga?

Incontri, lezioni, spettacoli, concerti, workshop: il festival è tutto questo. Dopo l’evento ci sono gli spazi per acquistare i libri e i dvd degli artisti ascoltati, per approfondire e continuare il dialogo. Come per ogni edizione, a breve saranno disponibili gratuitamente sul sito del festival le registrazioni degli incontri in formato audio e video (http://portale.festivaldellamente.it). Lodevoli risorse.

Ma alla fine della “conoscenza” e dell’ “approfondimento culturale” – la domanda è sempre la stessa – cosa ne rimane nella mente, nella testa di tutti noi, uscendo dal festival?

Risuona anche dopo ogni applauso sentito, questa vocina che ci interroga; si fa fastidioso questo ronzio che, una volta spente le luci, si sente provenire da qualche capannello un po’ in disparte.

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“Un festival per tutti”, cioè in grado di parlare “a tutti”, ma proprio a tutti, banale a dirsi, rischia di non parlare proprio a nessuno: l’intervento di “Approfonditamente” dei MASBEDO, per chi già li apprezza per le loro opere, termina, alla fine delle due ore di presentazione di alcuni dei loro video, per impoverirne l’efficacia stessa, per ridurne la portata poetica; per contro, di certo, non aggiunge niente al loro lavoro, né alla conoscenza delle loro opere. Augé e Zagrebelsky, per citare solo altri due dei “monumenti” intervenuti, escono, dalla piazza, vittime di semplificazioni che non si confanno alla loro statura: qualche volta è la formula dell’intervista che non funziona, in altri casi l’eterogeneità del pubblico della piazza trascina il dialogo, inesorabilmente, verso il basso. Anche i racconti di chi è avvezzo al palcoscenico (Celestini e Paolini, per esempio), qui non sono tra le loro prove indimenticabili.

Perché accade? Perché “un festival per tutti”, la cultura per tutti e la cultura per le masse sono il prodotto di un nonsense, qualcosa di simile da quello che faceva cantare a Gaber “la fila col panino davanti ai musei mi fa tristezza”. Cos’avrebbe detto il cantautore delle file interminabili che quest’anno – per Sarzana fatto inedito nelle precedenti edizioni – si creavano all’ingresso, mezz’ora o anche un’ora prima dell’evento, pur essendo il pubblico già in possesso dei biglietti che sono andati tutti esauriti, come si ricordava in apertura, e diversi giorni prima dell’apertura del festival, nelle vendite on line? Pubblico in fila da ore per aggiudicarsi il posto migliore. Pubblico dei ritardatari anch’esso in fila: anche per strappare uno dei pochi biglietti che, all’ultimo, non fossero stati ritirati che chi li aveva per tempo acquistati.

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La formula del “festival per tutti”, insomma, stride, a quanto sembra, con la voglia di “approfondimento culturale” e di “conoscenza” o meglio, essa è ampiamente surclassata dall’audience, dalla voglia, sacrosanta, di esserci, di respirare il clima festivaliero. Non si può avere la moglie ubriaca e la botte piena, si diceva una volta. O, più semplicemente, per continuare con le frasi fatte: non si può confondere la seta con la lana, non si può presentare come cultura (alta) la divulgazione, i valori stabiliti a priori, il conformismo e l’accademismo quando non, infine, i valori del mercato. Per dirla con le parole di un altro autore culto degli anni Sessanta, Dwight Macdonald – suo un classico come Masscult and Midcult – il festival, lungi dall’esporsi e dal presentarsi per quello che è – piacere alle folle con ogni mezzo (masscult) -, cova in sé un duplice tranello: finge di rispettare i modelli della cultura (alta) mentre in effetti, parafrasando lo stesso Macdonald, li annacqua e li volgarizza (midcult). Insomma, piuttosto che una democratizzazione della cultura da dare in pasto a quelle che una volta si chiamavano le masse, è una corruzione della stessa, completamente assoggettata allo spettatore e, quindi, all’audience. Certo, anche per una critica di questo tipo – forse, qualcuno dirà “vecchia” – vale quello che Umberto Eco ravvisò in Macdonald: « la critica della cultura di massa diventa in questi casi l’ultimo e più raffinato prodotto della cultura di massa ».

Inoltre la distinzione tra culture, ce l’ha spiegato lo stesso Eco tempo fa, non è più netta. Più che l’oggetto cambia lo sguardo, impegnato o disattento. E per un udito disattento, scrisse in un articolo l’autore de Il nome della Rosa, si può usare Wagner come colonna sonora dell’Isola dei Famosi.

Sarebbe forse interessante interrogarli questi sguardi, all’uscita dal festival, e soprattutto ora, a riflettori spenti, in vista della prossima annata, del prossimo festival?

Raffaella Fontanarossa

(Nelle foto, il centro storico di Sarzana, Ascanio Celestini, I Masbedo, Erri De Luca

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